Cronache

Film “Prima che la notte” su Pippo Fava. Antimafia retorica e senza mordente

Antonio Amorosi

“Prima che la notte”. Recensione. Film deludente sul genio giornalistico Pippo Fava che aveva spiegato prima di altri la mafia imprenditoriale e la sua avanzata

Mercoledì scorso è andato in onda in prima serata su Rai 1 il film coprodotto da Rai fiction di Daniele Vicari “Prima che la notte”, sulla vita e le avventure del giornalista Pippo Fava e dei suoi giovani cronisti nella Catania degli inizi anni '80, inquinata alle fondamenta dal morbo della mafia. 

Un cast di attori fantastici, in primis Fabrizio Gifuni, una sceneggiatura asciutta ed efficace (a cui hanno partecipato anche il figlio Claudio Fava e Michele Gambino, entrambi cronisti di Pippo) e una storia davvero toccante non rendono l'idea di quello che davvero ha rappresentato Pippo Fava per il nostro Paese, il principe dell'antiretorica di quella generazione che ha provato davvero a combattere la mafia.

Per quanto la personalità mordace di Fava faccia irruzione da tutti i pori del racconto cinematografico siamo lontani anni luce da soluzioni linguistiche all'altezza. Il montaggio del film è senza mordente e dalle prime immagini del racconto sai già dove andremo a parare, degradando in quella retorica del martirio civile che deve caratterizzare in Italia chiunque si trovi a parlare di mafia da combattere.

“A che serve una Ferrari, se la fai correre come una Cinquecento?”, potremmo dire parafrasando proprio Fava quando ripeteva “a che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?”.

In Italia se vuoi raccontare storie di mafia devi prima genufletterti alla retorica fasulla dell'impegno civile, all'antimafia di parata, alla messinscena dello Stato che celebra in tv e nei teatri i collusi che verranno arrestati il giorno dopo o inginocchiarti all'intelligentia dei giornaloni da salotto che ti distruggono quando sei vivo per celebrarti da morto, come è stato con Giovanni Falcone. Devi propagandare il martirio della sconfitta. Perché in Italia ci piaci se muori. Così ti si potrà celebrare con le bandierine colorate e un monumento, in quest'epoca dove ragione ed etica hanno abbandonato gli esseri umani, sostituiti da fama e business. Oppure metti in scena Gomorra, l'epopea unidimensionale della malavita, non mostrando gli altri poteri. La veridicità di serial americani come Narcos sta dieci spanne sopra proprio perché mostra gli intrecci tra tutti i vari poteri che innervano la società.

Fava invece con precisione da chirurgo, da una piccola redazione siciliana senza mezzi ed esperienza, era riuscito a spiegare perché la criminalità organizzata più pericolosa fosse quella che non uccide, che pensa sempre in termini imprenditoriali e come si stesse affacciando da lì a poco in tutto il Paese portando lavoro, prosperità e speculazione. I morti li faceva altrove. Trentacinque anni prima che se ne accorgessero regioni fiorenti come Emilia Romagna, Lombardia, Toscana o Veneto; dal profondo sud del sud, dalla sua Catania, quella dei quattro grandi cavalieri del lavoro, Costanzo, Finocchiaro, Graci, Rendo, da lui rinominati “Cavalieri dell'apocalisse mafiosa” e approdati nel resto del Paese come ponte economico per i candidati mafiosi in Parlamento. Con parole semplici e una visione prospettica del futuro che nel film resta solo una suggestione mentale di chi vede la pellicola e ha vissuto quegli anni.

Avevamo un genio giornalistico in Italia e si chiamava Pippo Fava, freddato nel 1984 con cinque colpi di pistola ordinati dal boss Nitto Santapaola. Le parole di Alberto Moravia per Pier Paolo Pasolini non sarebbero esagerate per Fava. Un genio giornalistico come il suo non nasce tutti i giorni. Un genio giornalistico non lo troverete in tv col ditino alzato a fare la morale al cattivone di turno né ospite in un talk show a pavoneggiarsi con la sua ultima fatica letteraria. Un genio giornalistico sa far vedere la storia che si dipana intorno a noi, trovando soluzioni linguistiche in grado di mostrare il potere del suo tempo e quello che verrà.

Ormai non si combatte più in nome della giustizia sociale e di una democrazia da perfezionare, quasi fossimo amministratori di condominio. Se il sistema è corrotto e nessuno si illude possa cambiare dalle fondamenta, la vera battaglia si gioca sull'integrità di ognuno, che significa assunzione di responsabilità di fronte alle proprie scelte e al ruolo che si vuol giocare nella storia, nelle piccole storie quotidiane. La stessa integrità che aveva Pippo Fava e che ci ha lasciati come un seme.