Cronache

l'Italia al tempo delle bufale, parla Coltelli

Simone Cosimelli

L'intervista a Michelangelo Coltelli, fondatore di Bufale un tanto al chilo

Michelangelo Coltelli, admin e fondatore del sito BUTAC - Bufale un tanto al chilo, ha cominciato per caso a fare quello che fa: smascherare notizie false sul web. Nel 2012 la figlia ha un anno, e deve sottoporsi ad alcuni vaccini. In quel momento si accorge che, anche nella sua cerchia di amici, circolano bufale . «Leggende urbane anziché notizie verificate». Appassionato di informatica, decide quindi di provare a rendersi utile. «Ma la cosa mi è sfuggita di mano: e ora ho 20 mila lettori al giorno». Su Butac, appunto. Un riferimento contro le derive della rete: «un pericolo che da qui a 10 anni dobbiamo trovare il modo di sconfiggere». Di questo, e altro, parla con Affari italiani.

Il termine del 2016 è stato «post-verità». In realtà, però, c’è un’evoluzione storica delle bufale on line. O no?

«Diciamolo pure tranquillamente: le bufale sono sempre esistite. Non sono una novità. Un esempio: le teste di Modigliani ritrovate nell’Arno da quattro ragazzi, tanti anni fa. Una bufala. Piuttosto è cambiato il mezzo con cui vengono trasmesse».

Il web.

«La velocità con cui ci arrivano e la viralità con cui si diffondono ha cambiato le regole del gioco. Una volta rimanevano dentro un bar. Oggi no. Complice soprattutto una altissima percentuale di analfabetismo digitale: molte persone usano smartphone, tablet, ma poi non sanno distinguere un blog da una testata giornalistica autorevole, regolarmente registrata».

La frase che confonde tutto: «L’ho letto su internet».

«Esatto. E il problema nasce quando una diffusione molto forte, in rete, trasforma in verità ciò che non lo è».

Esistono una serie di forze che concorrono ad amplificare il fenomeno? Tv, giornali, media.

«Sì, è vero. La crisi editoriale ha fatto nascere una tendenza, nel giornalismo, per cui la notizia virale va rincorsa. Per guadagnare lettori, si pubblica senza nessuna verifica, senza nessun filtro. Butac si è spesso occupata di notizie rilanciate da giornali in primo piano. Smascherandone gli errori. Il rischio bufale è sempre dietro l’angolo».

Un esempio?

«Wikipedia ha deciso di vietare l’uso dei tabloid britannici Daily Mail e Sun come fonti da citare. Sono giornali che pagano i redattori in base alla “cliccabilità”, non per il valore della notizia. Ma mentre Wikipedia non li ritiene affidabili, in Italia, Ansa, Adnkronos e altre agenzie sì. E spesso, poi, le notizie finiscono ai giornalisti».

Quanto influisce il cosiddetto pregiudizio di conferma nella circolazione di bufale?

«Molto. E ne siamo tutti vittime. Quando su Facebook vediamo una notizia che, sostanzialmente, ci dà ragione (cioè conferma quello in cui già crediamo), la bufala riesce a propagarsi. Infatti siamo portati a condividere di più quello che rispecchia le nostre opinioni. Una notizia minore, anche di bassa risonanza, può avere così un’eco impensabile. E girare sui social, tra i nostri amici: che ormai, sempre più spesso, sono migliaia».

Come combatterle?

«E’ difficile, e non c’è una ricetta. Leggere una notizia con spirito critico rimane la prima cosa da tenere a mente. Prima di condividere, bisogna leggere e rileggere – non fermarsi al titolo! - e pensarci bene. Dovrebbe sorgere il sospetto ogni volta che in un articolo mancano determinate referenze».

Quali?

«Per esempio le Cinque W del giornalismo: chi, cosa, quando, dove e perché. In assenza di questi requisiti, la notizia è dubbia. E sarebbe meglio non condividerla».

Butac si occupa di controbattere, punto per punto, le bufale. Spesso anche con articoli lunghi, dettagliati. E’ un approccio vincente?

«Noi non possiamo vincere, non fermeremo mai il problema delle notizie false. Possiamo solo arginarle».

Perché? 

«Perché l’unica reale soluzione è spiegare ai ragazzi di domani il mondo di internet e come si utilizza la rete nel pieno delle sue potenzialità. La rete è solo un mezzo, non ha colpe: si può saperla usare o meno. Per questo bisogna andare concretamente a insegnare ai giovani. Istruzione, maggiore consapevolezza del mezzo, volontà di appronfodire: sono passaggi fondamentali. E la scuola dovrebbe aggiornarsi. Serve un movimento culturale che abbia al centro l’importanza della corretta informazione».

Quali sono le bufale più diffuse? 

«Le bufale sono disinformazione: cioè, per capirci, c’è gente – per un ritorno economico - a cui fa comodo che una certa cosa venga detta, scritta o recepita. Quelle sull’alimentazione, sui vaccini e sulla scienza in generale si prestano a questo fine perché, di fatto, attaccano la medicina ufficiale proponendo una soluzione alternativa. Ci sono poi le bufale politiche, e in questo senso quelle sull’immigrazione negli ultimi anni vanno molto di moda. Ce ne sono tante altre, del resto, e purtroppo assistiamo a una circolazione continua: dove gli stesso temi, ciclicamente, vengono riproposti».

La madre di tutte le bufale attuali? 

«Quella del Senatore Cirenga».

Cioè? 

«Un inesistente senatore che avrebbe fatto una manovra per creare un fondo salva-parlamentari da miliardi di euro. Nasce nel 2012 da un gruppo di persone che l’ha tirata fuori solo e unicamente per studiare il percorso di una bufala. Da cinque anni circola indisturbata, da cinque anni sopravvivere nel web e inganna migliaia di utenti».

Ma l'Italia è un Paese propenso al complottismo?

«Forse stiamo superando perfino gli Stati Uniti. C’è un’analisi precisa in merito: più un Paese è in crisi, più i suoi cittadini (che percepiscono la crisi) credono alle bufale, e di lì ai complotti. Giustificare le proprie sfortune attribuendo la responsabilità a un complotto, agli “altri” per definizione, è più facile rispetto al dover ammettere errori personali. Purtroppo in casi del genere c’è l’esigenza di trovare qualcuno che spieghi, in maniera semplice, lineare e definitiva, come sono andate le cose. E appena lo si trova, si rimane ingannati». 

 

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