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Cronache
Massoneria vs. Antimafia: il ricorso dei massoni contro la Bindi. Il documento

Proc. 242/2017 R.G.T.L. / SEQUESTRI

 

 

TRIBUNALE PENALE DI ROMA

SEZIONE RIESAME

 

ISTANZA DI RIESAME EX ART. 324 C.P.P.

 

INTERPOSTA

 

dai sottoscritti Avv. Massimiliano Albanese del Foro di Reggio Calabria, con studio in Roma […] ed Avv. Vincenzo Montanino del Foro di S. Maria Capua Vetere, con studio in S. Maria Capua Vetere […], in virtù di nomina loro congiuntamente e disgiuntamente conferita in calce al presente atto,

 

NELL’INTERESSE

 

del Dott. Fabio Venzi […], in proprio e nella qualità di “Gran Maestro” legale rappresentante pro tempore della “GRAN LOGGIA REGOLARE D’ITALIA DEGLI ANTICHI LIBERI ED ACCETTATI MURATORI”, di seguito GLRI, con sede in Roma […], che ha dichiarato di eleggere domicilio, ai fini del presente procedimento, in Roma […]presso lo studio legale del sottoscritto Avv. Massimiliano Albanese;

 

AVVERSO

 

il  “Decreto di Perquisizione e Sequestro”  ex  artt. 247 e ss. c.p.p. emesso in data 1 marzo 2017 dalla “Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere” istituita con Legge 19 luglio 2013 n. 87 (all. 1), di seguito per brevità Commissione antimafia, avente ad oggetto perquisizione della sede della GLRI, finalizzata ad individuare ed acquisire agli atti dell’inchiesta parlamentare:

 

- «gli elenchi nominativi degli appartenenti a qualunque titolo alle logge della Calabria e della Sicilia» della GLRI stessa, «dal 1990 ad oggi, comprendenti anche coloro che, per qualsiasi ragione, abbiano smesso di farne parte o di operarvi, nonché, per tutti, l’indicazione del grado e della mansione»;

 

- «gli atti inerenti alle logge calabresi e siciliane» della GLRI «comunque sospese o cessate, dal 1990 ad oggi, comprensivi dell’elenco nominativo dei rispettivi appartenenti a qualunque titolo e dei loro fascicoli personali, degli accertamenti svolti e dei provvedimenti assunti»;

 

con conseguente sequestro «degli atti suindicati che si trovino in formato cartaceo», nonché «dei sistemi e supporti informatici di qualunque natura contenenti gli atti suindicati», provvedimento notificato alla parte in data 1 marzo 2017 e posto in esecuzione, nella medesima data, dalla polizia giudiziaria del Servizio Centrale di Investigazione sulla Criminalità Organizzata, di seguito SCICO, della Guardia di Finanzia di Roma (all. 2);

 

impugnazione che si fonda sui

 

M O T I V I

 

che vengono di seguito proposti.

 

1. PREMESSA.

Si ritiene utile, ai fini di una completa cognizione della fattispecie da parte dell’On.le Tribunale adito, premettere alcune brevi notizie sulla parte istante, nonché sulle circostanze presupposto del provvedimento oggetto d’impugnazione.

 

1.1 Sull’associazione “Gran Loggia Regolare d’Italia”.

 

La GLRI è un’associazione privata, costituita con atto pubblico in data 16 aprile 1993, con lo scopo di esercitare sul territorio della Repubblica Italiana il governo della massoneria: le finalità dell’ente associativo sono quindi di tipo essenzialmente filosofico-culturale, nonché filantropico, con espressa esclusione di politica e religione.

Da un punto di vista storico, la genesi di tale associazione è legata ad una sostanziale scissione da preesistente ente associativo avente medesimi scopi, denominato “Grande Oriente d’Italia”, a seguito della formulazione, da parte dell’Autorità giudiziaria, di ipotesi criminose in seno a tale ente: ciò indusse alcuni associati a dimettersi, procedendo alla costituzione della nuova “Gran Loggia Regolare”, aggettivo indicativo delle peculiarità di tale associazione. Trattasi, infatti, dell’unica associazione massonica italiana riconosciuta da parte della “United Grand Lodge of England”, associazione massonica primigenia e di maggior prestigio planetario.

La qualificazione di regolarità deriva, sul piano dei principi massonici, dal rispetto di condizioni che non sono rilevanti ai fini dell’odierno procedimento; sul piano civile, dall’assoluta compliance in relazione a tutte le norme di legge applicabili all’attività esercitata dall’associazione medesima.

In tale ottica, la GLRI ha fatto vanto di aver convintamente offerto, fin dalla sua fondazione, una piena ed incondizionata collaborazione verso l’Autorità giudiziaria impegnata nella prevenzione e repressione di reati, specialmente di tipo associativo e di criminalità organizzata, tra l’altro offrendosi spontaneamente di comunicare alle Autorità di polizia i nominativi dei propri iscritti. La successiva introduzione della normativa sulla tutela dei dati personali ha determinato la sospensione della prassi di comunicare gli iscritti.

Alla data di esecuzione del provvedimento impugnato, la GLRI contava circa 2.300 associati, organizzati in 13 macro-gruppi territoriali, denominati “Gran Logge Regionali”, e 141 sottogruppi locali, denominati “Logge”. Di queste ultime, con riferimento ai territori d’interesse del provvedimento oggetto della presente impugnazione, 13 risultavano attive in Calabria e 26 in Sicilia.

Tutti gli associati devono necessariamente appartenere ad una “Loggia” e devono essere conosciuti dagli organi associativi centrali e periferici, nonché da tutti gli altri associati che appartengono alla medesima “Loggia”.

L’organo di vertice, denominato “Gran Maestro” – che sostanzialmente svolge la funzione di presidenza dell’associazione – è eletto ogni 6 anni dall’assemblea generale, denominata “Gran Loggia”. Costui nomina dei collaboratori della presidenza, denominati “Assistenti Gran Maestri”, nonché i responsabili della segreteria centrale, denominati “Gran Segretario” ed “Assistenti Gran Segretari”, assegnando altresì vari altri incarichi a dei “Grandi Ufficiali”. Nomina inoltre i responsabili delle “Gran Logge Regionali”, denominati “Gran Maestri Regionali”.

L’organo amministrativo è denominato “Consiglio delle Proposte Generali” e svolge sostanzialmente la funzione di consiglio direttivo dell’associazione.

Le “Logge” eleggono annualmente, tra i propri appartenenti, un responsabile denominato “Maestro Venerabile”, il quale nomina tra gli appartenenti alla “Loggia” un “Segretario”.

L’attività associativa viene esercitata secondo le procedure rituali di tipo inglese, che prevedono unicamente i tre “gradi” iniziatici di “Apprendista Ammesso”, “Compagno di Mestiere” e “Maestro Muratore”, più “Arco Reale”.

 

1.2 Sul trattamento dei dati degli associati e sulla richiesta di spontanea consegna dei loro elenchi, formulata da parte della Commissione antimafia preliminarmente al provvedimento qui impugnato: questioni giuridiche sottese alla fattispecie.

 

All’atto dell’iscrizione, gli associati conferiscono alla GLRI, attraverso la compilazione di un modulo, i propri dati personali, inclusi quelli di tipo “sensibile”, esibendo altresì il loro certificato generale del casellario giudiziale ed il certificato dei carichi pendenti.

I dati e documenti forniti vengono raccolti e trattati ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196, di seguito Codice privacy, ai fini dell’espletamento delle attività amministrative connesse al rapporto associativo: tale trattamento non presenta per sua natura particolari profili di rischio e – stante l’autorizzazione generale n. 03/2016 al trattamento dei dati sensibili da parte degli organismi di tipo associativo, rilasciata dall’Autorità Garante in data 15 dicembre 2016, nonché tenuto conto delle autorizzazioni precedenti – la GLRI ha sempre proceduto senza necessità di adottare specifiche cautele straordinarie.

Una diversa  fattispecie  è  tuttavia emersa allorquando la Commissione antimafia, in data 24 gennaio 2017, ha ascoltato in audizione a testimonianza, ai sensi dell’art. 4 della propria legge istitutiva n. 87/2013, il Dot. Fabio Venzi, nella sua qualità di “Gran Maestro” legale rappresentante pro tempore della GLRI.

In tale sede la Commissione, per tramite del proprio Presidente, On.le Rosy Bindi, richiedeva al Dott. Fabio Venzi, nella propria qualità di Titolare del trattamento dei dati, la consegna di un elenco completo di tutti gli iscritti alla GLRI, sin dalla sua fondazione.

La richiesta veniva formalizzata tramite la nota prot. 7509 del 24 gennaio 2017 (all. 3), in cui la Commissione antimafia comunicava di voler «acquisire, nell’ambito dell’inchiesta avviata sul tema dei rapporti tra mafie e massonerie, l’elenco integrale delle Logge e dei nominativi di tutti i relativi iscritti» alla GLRI, «con particolare riferimento alle regioni Calabria e Sicilia, dalla sua fondazione ad oggi». Con successiva nota prot. 7629 del 2 febbraio 2017 (all. 4), la Commissione comunicava di aver «convenuto di assegnare il termine di mercoledì 8 febbraio 2017 per provvedere alla trasmissione degli elenchi relativi alle regioni Calabria e Sicilia», altresì stabilendo «che i suddetti documenti saranno assoggettati a regime di segretezza».

Vi è da evidenziare come sia la prima che la seconda nota della Commissione antimafia apparissero invero formulate in termini di mera comunicazione, presupponendo che l’adempimento avvenisse in modo spontaneo e su base volontaristica da parte del destinatario: come tali, le note in questione non sembravano di per sé idonee a produrre gli effetti giuridici di un’ordinanza o decreto di esibizione e consegna, adottato nell’esercizio dei poteri di Autorità giudiziaria di cui la Commissione dispone, ai sensi dell’art. 82 della Costituzione nonché dell’art. 1 comma 2 della sua legge istitutiva n. 87/2013: difettava,  in esse, sia la parte motiva che quella dispositiva, né vi erano contenuti avvisi rituali. Sicché, all’atto del loro ricevimento, risultava dubbio che l’eventuale consegna degli elenchi, rebus sic stantibus, potesse configurare l’adempimento di un obbligo legale.

In linea di fatto, il Dott. Fabio Venzi, in sede di audizione a testimonianza,  aveva immediatamente manifestato la propria personale disponibilità a riscontrare positivamente la richiesta della Commissione antimafia, anche in coerenza con l’identità storica della GLRI – che, come qui precisato sub 1.1, precedentemente all’introduzione della normativa privacy provvedeva periodicamente alla consegna, del tutto spontanea, degli elenchi dei propri iscritti alle Autorità di polizia – riservandosi tuttavia di procedere all’esito di una verifica del rispetto di tutte le disposizioni di legge a tutela della riservatezza degli associati: a ben vedere, infatti, la richiesta della Commissione parlamentare ineriva un conferimento spontaneo di “dati sensibili”, con ogni conseguente profilo di ragionevole rischio per la tutela della privacy.

Non appariva infatti dirimente, sul punto, la disposizione di cui all’art. 8 comma 2 lettera c) del Decreto 196/2003, laddove si esclude che l’interessato (id est il soggetto cui i dati si riferiscono) possa far valere direttamente i diritti di cui all’art. 7 del Decreto medesimo (informazioni sul trattamento, aggiornamento e cancellazione dei dati, opposizione al trattamento) nel caso in cui il trattamento dei dati venga effettuato da una Commissione parlamentare. Si tratta, tuttavia, di una fattispecie nella quale il titolare del trattamento è espressamente individuato nella Commissione, quindi molto diversa dal caso in cui un titolare soggetto privato – qual è la GLRI – debba o, più correttamente, “voglia”, attesa la spontaneità della consegna, conferire dati sensibili ad una Commissione. Inoltre, lo stesso art. 8 non esime totalmente il titolare del trattamento dalle varie responsabilità che lo stesso Decreto gli attribuisce, prevedendo espressamente al comma 3 che, nel caso di trattamento da parte di Commissioni parlamentari, sia rimesso al Garante della privacy, «anche su segnalazione dell’interessato», di valutare le condizioni e le modalità del trattamento, secondo la procedura di cui al successivo art. 160. Pertanto, nel caso concreto il titolare effettivo del trattamento, la GLRI, a monte del conferimento dei dati a nuovo titolare, la Commissione antimafia, non sarebbe stato di certo esentato dal rispetto delle regole previste del Codice privacy.

Ed occorre tenere conto che, nella società civile italiana, vi è – purtroppo – una percezione del fenomeno massonico nel suo insieme come un disvalore, sebbene la massoneria abbia un indiscutibile ruolo positivo nella storia e nella cultura del Paese ed alla stessa siano appartenuti – ed appartengano ancora oggi – uomini di grande valore socio-cul-turale e morale, rispettosi della Legge e delle Istituzioni repubblicane, dediti unicamente al miglioramento personale ed alla filantropia. A differenza, dunque, di quanto avviene in altre Nazioni, in Italia persiste un diffuso sentimento di diffidenza e, in alcuni casi, di vera e propria avversione verso i massoni: l’ipotesi di una circolazione degli elenchi degli iscritti alla GLRI e di una loro potenziale diffusione appariva quindi – e  tutt’oggi appare – foriera di verosimili discriminazioni e fastidi per gli associati.

In ragione di ciò, la richiesta formulata dalla Commissione antimafia configurava una fattispecie di trattamento dei dati assolutamente straordinario, che si sarebbe sostanziato nella spontanea  – non dovuta, in assenza di un preciso obbligo legale – comunicazione di dati  sensibili  a  terzi  estranei  al trattamento,  in assenza di specifico consenso informato degli interessati, reso ai sensi dell’art. 13 del Codice privacy.

Peraltro, tale comunicazione dei dati si sarebbe addirittura potuta sussumere sub speciedi

“diffusione”, ai sensi dell’art. 4 comma 1 lettera m) del Codice privacy, in presenza di un numero potenzialmente indeterminato di soggetti che sarebbero venuti a conoscenza dei dati stessi, tenuto conto che la Commissione è composta da ben 50 membri, ciascuno dei quali dotato di una propria struttura di segreteria politica, e dispone altresì di personale in servizio presso la Camera di appartenenza del Presidente, nonché di ulteriori unità organiche esterne con funzione di consulenza.

Posto che, ai sensi dell’art. 15 del Codice privacy, il trattamento dei dati sensibili deve essere considerato alla stregua di un’attività pericolosa ex art. 2050 c.c., con ogni conseguente onere precauzionale in capo al titolare del trattamento, le indicazioni fornite dalla Commissione antimafia, riguardo al regime di segretezza cui i dati ricevuti sarebbero stati assoggettati, andavano vagliate, dal titolare prima della consegna, alla luce della normativa di riferimento.

In particolare, l’art. 5 comma 6 della Legge istitutiva n. 87/2013 prevede che la Commissione stabilisca «quali atti e documenti non devono essere divulgati, anche in relazione ad esigenze attinenti ad altre istruttorie o inchieste in corso». Il successivo art. 6 vincola ogni persona, coinvolta a qualsiasi titolo nelle attività della Commissione, «al segreto per tutto quanto riguarda gli atti e i documenti di cui all'articolo 5, commi 2 e 6» (il comma 2 in questione si riferisce a documenti provenienti dall’Autorità giudiziaria o da altre Commissioni parlamentari, sicché non rileva nel caso di specie).

Il Regolamento interno della Commissione antimafia prevede, all’art. 14 comma 2, che la

stessa Commissione possa «apporre il segreto funzionale su atti o documenti da essa for-mati o acquisiti», stabilendo poi, all’art. 20, il regime di funzionamento dell’archivio, prevedendo al comma 5 che «gli atti depositati in archivio possono essere consultati dai commissari, dai collaboratori esterni […] e dal personale amministrativo addetto specificamente alla Commissione», con la precisazione, al comma 6, che «nel caso di atti, delibere e documenti classificati come segreti, non è consentita in nessun caso la possibilità di estrarne copia, fermo restando quanto previsto dalla legge istitutiva per l'informatizzazione».

Tuttavia, in tale quadro regolamentare improntato alla “sicurezza dei segreti”, l’art. 22 dello stesso Regolamento, inerente la pubblicazione degli atti e documenti della Commissione, nello stabilire le sorti della documentazione acquisita nel corso delle attività dell’Organismo parlamentare, allorquando saranno esaurite le sue funzioni, prevede al comma 3 che «tutti gli atti comunque inerenti allo svolgimento dell’inchiesta vengono versati nell’archivio storico del ramo del Parlamento cui appartiene il Presidente della Commissione».

In altre parole, la Commissione ha certamente il potere di apporre il segreto agli atti e documenti della propria attività d’indagine, tuttavia tale segreto – alla luce delle stesse norme che lo configurano – non è idoneo ad escludere le seguenti ipotesi:

 

a) che un numero indeterminato di persone abbia accesso alle informazioni riservate, potendosi quindi configurare una “diffusione” dei dati – ai sensi dell’art. 4 comma 1 lettera m) del Codice privacy – essendo ammesso l’accesso, quantomeno, ai seguenti soggetti:

 

- tutti i 50 commissari e, per loro tramite, l’indefinito numero degli stretti collaboratori di ciascuno di essi (che, per prassi e diritto, assistono il parlamentare nello svolgimento delle proprie attività funzionali);

 

- i collaboratori esterni della  Commissione  e,  per loro tramite,  l’indefinito  numero degli stretti collaboratori di ciascuno di essi;

 

- il personale amministrativo addetto specificamente alla Commissione;

 

b) che in fase di informatizzazione dei documenti (richiamata dall’art. 20 comma 6 del Regolamento interno e prevista dall’art. 7 comma 6 della Legge istitutiva) possano verificarsi  delle  “falle”  nel  sistema di sicurezza,  i cui criteri minimi  di funzionamento non vengono neanche menzionati nelle norme di funzionamento della Commissione;

 

c) che  la  Commissione valuti di revocare,  successivamente  all’acquisizione dei dati,  il regime di segretezza, posto che nessuna norma vieta tale revoca, sicché la relativa decisione ha matrice unicamente politica e, quindi, risulta ontologicamente inidonea a garantire tutte la parti interessate;

 

d) che, all’atto del versamento di «tutti gli atti comunque inerenti allo svolgimento del-l’inchiesta» nell’archivio storico del Parlamento, venga mantenuto e garantito il regime di segretezza, peraltro da escludersi proprio in ragione della collocazione sistematica della relativa disposizione regolamentare (art. 22 comma 3 del Regolamento interno della Commissione) tra le norme di funzionamento della «pubblicità di atti e documenti», sicché parlare di “segreto” risulterebbe un’evidente contradictio in adiecto.

 

Sotto altro profilo, appare da escludere altresì la ricorrenza nella specie dell’ipotesi di cui all’art. 58 del Codice privacy, che consentirebbe la comunicazione dei dati nel caso di esigenze di difesa e sicurezza dello Stato, inclusa la prevenzione e repressione di gravi crimini: la norma prevede infatti delle ipotesi tassative, nessuna delle quali calzante al caso, al di là del pur condivisibile strepitus fori suscitato dal fenomeno mafioso. Infatti, mantenendosi nell’alveo dell’inquadramento strettamente giuridico dei fatti – e senza passare al diverso piano dell’opportunità politica e dell’interesse mediatico – occorre prendere atto che la Commissione ha una funzione meramente conoscitiva del fenomeno malavitoso de quo, come esplicitata dall’art. 1 della Legge istitutiva n. 87/2013, del tutto priva di una specifica finalità di prevenzione o repressione criminale, istituzionalmente demandata, in linea con il dettato costituzionale, unicamente all’Autorità giudiziaria ordinaria. E, d’altra parte, la richiesta rivolta al Dott. Fabio Venzi non rivestiva, come si è detto, i caratteri dell’esercizio dei poteri di Autorità giudiziaria, presupponendo invece la spontanea adesione ad un mero invito,  ancorché accorato e, da ultimo, assoggettato ad un termine.

Il titolare del trattamento dei dati era quindi chiamato ad effettuare sui dati stessi un’operazione straordinaria, non prevista dall’informativa ex art. 13 del Codice privacyresa agli associati all’atto dell’iscrizione, comunicando a terzi dei “dai sensibili” in assenza di specifico consenso informato degli interessati, senza che apparisse in modo univoco ed inequivoco la ricorrenza di un preciso obbligo di legge in tal senso, esimente da eventuali responsabilità – civili e penali – per l’illecito trattamento.

Vi era poi da considerare, quale ulteriore aspetto problematico connesso alla richiesta di consegna degli elenchi, che in assenza di una chiara motivazione il connesso trattamento dei dati sarebbe potuto risultare sproporzionato e non necessario rispetto agli scopi perseguiti: il titolare del trattamento avrebbe dovuto quindi operare una valutazione di adeguatezza sull’unico presupposto che la richiesta proveniva da un’Autorità pubblica, senza tuttavia conoscere le specifiche finalità che tale Autorità intendeva perseguire, le quali – si ribadisce – non potevano coincidere con quelle tassativamente previste dall’art. 58 del Codice privacy. Sicché, aderendo acriticamente alla richiesta della Commissione, il titolare del trattamento, nella persona del Dott. Fabio Venzi, avrebbe agito in dispregio degli artt. 2 e 3 del Codice privacy.

Per tutte le ragioni suddette la GLRI, pur intenzionata a fornire quanto richiesto dalla Commissione parlamentare, si era determinata di richiedere in via preventiva un parerepro veritate ad un consulente indipendente – il Prof. Avv. Federico Bergaminelli (titolare dell’insegnamento “Responsabilità da illecito trattamento dei dati personali” presso la Cattedra di Diritto Pubblico dell’Università degli Studi di Pisa) – il quale aveva quindi suggerito, inter alia, la raccolta di specifici consensi informati da parte degli associati, quale atto preliminare alla consegna degli elenchi.

Conseguentemente, l’associazione aveva distribuito ai propri iscritti un’adeguata informativa ex art. 13 del Codice privacy, invitandoli a manifestare il consenso allo specifico trattamento costituito dalla consegna degli elenchi alla Commissione antimafia.

Nel contempo – volendo cogliere l’opportunità offerta dall’unicità del caso giuridico in questione – la GLRI aveva altresì conferito incarico ad una struttura consulenziale indipendente – segnatamente, l’Istituto Italiano per l’Anticorruzione – per la predisposizione di un articolato percorso di complessiva privacy compliance, tutt’oggi in fase di esecuzione, con il duplice scopo di ridurre e razionalizzare i rischi e le responsabilità interne ed esterne per i soggetti statutariamente preposti alla direzione dell’associazione, offrendo nel contempo un elemento visibile di garanzia per gli associati, attraverso una rete di “data protection officers” e l’adozione di adeguate misure organizzative e di sicurezza. Tutto ciò anche con l’obiettivo finale di ottenere, prima obbedienza massonica al mondo, l’asseverazione del percorso di adeguamentoprivacy da parte di un Organismo indipendente di certificazione.

Nel mentre tutto ciò avveniva, in data 1 marzo 2017 la Commissione antimafia ha deliberato di procedere all’acquisizione degli elenchi de quibus «attraverso la perquisizione e il sequestro disciplinati dagli artt. 247 e seguenti del codice di procedura penale».

La Commissione parlamentare ha quindi posto in essere, per la prima volta solo in tale frangente, un atto di esercizio dei propri poteri di Autorità giudiziaria, facendo ricorso almodus  procedendi  regolato  dal codice di rito penale, delegando per l’esecuzione lo SCICO della Guardia di Finanza di Roma.

L’esercizio di tale potere da parte dell’Organismo parlamentare, a sommesso avviso della scrivente difesa, non può tuttavia prescindere dal rigoroso rispetto delle norme che lo regolano e dei presupposti che lo legittimano, nella specie del tutto assenti – come ci si appresta ad evidenziare, attraverso i motivi di riesame nel merito – sicché si pone l’esigenza concreta di ricorrere all’Autorità giudiziaria ordinaria, affinché ne accerti l’illiceità, con ogni conseguente statuizione.

La presente impugnazione non si pone, infatti, in contraddizione con la premessa che, per sua natura e costituzione,  la  GLRI  intende assumere un atteggiamento collaborativo con le Autorità pubbliche e, nella specie, si era già orientata, ut supradescritto, a consegnare l’elenco dei propri iscritti alla Commissione antimafia, sebbene limitatamente a coloro i quali avessero prestato il consenso a tale specifico trattamento dei “dati sensibili”.

Sussiste un’esigenza di tutela della legalità,  anche costituzionale,  e di giustizia,  di cui la

GLRI intende farsi portatrice ed interprete, sulla base dei principi che reggono la massoneria, nell’assoluto rispetto dell’imprescindibile ruolo dell’Autorità giudiziaria: è unicamente tale esigenza, quindi, a muovere l’associazione – e, per essa, il suo legale rappresentante – nella proposizione dell’odierno gravame, essendo il provvedimento autoritativo della Commissiona antimafia del tutto carente dei presupposti di merito e di rito, dunque illegittimo.

 

2. SULLA COMPETENZA DEL TRIBUNALE ADITO: NECESSITA’ DI UN’INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALMENTE ORIENTATA DELL’ART. 1 COMMA 2 DELLA LEGGE 87/2013.

 

La peculiarità della fattispecie, stante la natura dell’Autorità che ha adottato il provvedimento qui impugnato, comporta una preliminare riflessione sulla competenza al sindacato da parte dell’On.le Tribunale adito, in funziona di giudice del riesame.

A sommesso avviso della scrivente difesa, numerosi elementi depongono a favore della competenza in esame, che si ritiene certamente sussistente, laddove si voglia operare secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1 comma 2 della Legge istitutiva della Commissione parlamentare antimafia, n. 87/2013. Salvo denunciarne l’illegittimità costituzionale, ove tale interpretazione non convinca.

Detta  norma  conferisce  all’organo  parlamentare  «gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria», con la sola eccezione dei provvedimenti attinenti alla libertà e segretezza delle comunicazioni, nonché di quelli limitativi della libertà personale (salvo l’accompagnamento coattivo), perfettamente in linea con il dettato costituzionale, laddove si stabilisce appunto, all’art. 82 comma 2 seconda alinea della Costituzione, che le commissioni d’inchiesta agiscono «con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria».

E’ quindi assolutamente agevole tracciare un parallelismo procedurale – al di là delle diverse finalità, “conoscitive” nell’un caso e “repressive” nell’altro, come già evidenziate dalla giurisprudenza, sia di legittimità che costituzionale – tra le attività d’inchiesta parlamentare e le attività d’indagine penale.

La stessa Commissione parlamentare antimafia, nelle premesse del Decreto impugnato, fa propria e cita testualmente l’interpretazione che intravede nel «richiamo agli stessi poteri e alle stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria» il mezzo per «disciplinare il “modus procedendi” attraverso il rinvio alle norme processuali, ovviamente se e in quanto applicabili» (così nel Decreto impugnato, pag. 2).

Orbene,  occorre verificare,  in primo luogo, “se”  ed “in quanto” le norme processuali penali siano applicabili al caso di specie.

La risposta al primo quesito è nei fatti, posto che la stessa Autorità procedente ha fatto dichiarata  applicazione  di  un  “mezzo di ricerca della prova”  integralmente disciplinato dal codice di procedura penale.

La risposta al secondo quesito comporta, necessariamente, una riflessione che investe profili di costituzionalità.

Com’è noto, accanto alla disciplina dell’attività di ricerca della prova, che può – come nel caso di specie – sostanziarsi in attività particolarmente invasive e, de facto, limitative dell’azione da parte dei singoli, inclusa l’ablazione di beni – materiali e/o immateriali – rientranti nel novero delle proprietà private, il codice di procedura penale prevede una serie di strumenti di difesa avverso tali attività, laddove esercitate in modo difforme dal modello tipizzato, ovvero non sorrette da adeguata motivazione di merito.

Così, in un caso come quello di specie, il Pubblico Ministero che agisca ai sensi degli artt. 247 e seguenti c.p.p., dovrà rispettare tutte le condizioni contemplate dallo stesso codice di rito e, nel caso intenda procedere a sequestro, il relativo provvedimento sarà assoggettabile a riesame, ai sensi del combinato disposto degli artt. 257 e 324 c.p.p., nonché all’eventuale ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 325 c.p.p.

Il riesame in discorso può investire, ai sensi dell’art. 257 c.p.p, sia la regolarità procedurale del sequestro, che la sua motivazione nel merito. Si attua, in tal modo, il principio dell’effettività della difesa, diritto primario di rango costituzionale, proclamato come «inviolabile in ogni stato e grado del processo» dall’art. 24 comma 2 Cost., quale garanzia della correttezza dell’accertamento giudiziale, attraverso il contraddittorio tra la parte pubblica e quella privata, di fronte ad un giudice terzo ed imparziale.

D’altra parte, lo stesso art. 24 Cost., al comma 1, stabilisce che «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi», sicché tale norma di portata generale deve essere intesa a presidio dell’effettività della tutela giurisdizionale per chiunque ritenga essere stato leso in un proprio diritto o interesse legittimo, chiunque sia l’autore della lamentata lesione, in ipotesi anche un’Autorità pubblica nell’esercizio delle proprie funzioni.

In tale quadro, l’art. 111 Cost. dispone, al comma 1, che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge», prevedendo altresì, al comma 2, che il processo deve svolgersi «nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale» nonché, al comma 7, il principio – divenuto ormai “diritto vivente” e, come tale, riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità quale fondamentale principio regolatore del nostro ordinamento – dellagenerale ricorribilità per cassazione contro tutti i provvedimenti pronunciati da organi giurisdizionali, idonei ad incidere sulle libertà private, siano essi ordinari o speciali.

Il modello previsto dall’art. 111 Cost. è, quindi, un modello-garanzia, valido non solo per ogni grado del processo ma, soprattutto, per ogni tipo di procedimento, anche “speciale”.

D’altra parte,  l’effettività  della  difesa  ed  il giusto processo sono principi trasfusi anche

nelle Carte internazionali sottoscritte dall’Italia, prima fra tutte la Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, il cui art. 6 comma 1 prevede espressamente che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti».

Orbene, il quadro costituzionale ed internazionale di riferimento impone di ritenere il principio dell’effettività della difesa e del giusto processo quale principio fondamentale e inderogabile dell’ordinamento, come tale sovraordinato al mero formalismo connesso all’esame della “natura” di un atto dell’Autorità quando, nella sostanza, lo si ritenga lesivo, de facto, di un diritto del singolo che – com’è per quello all’effettività della difesa – costituisce diritto di rango primario ed inviolabile.

In tal senso, non appare quindi dirimente la disamina circa la natura “giurisdizionale”, ovvero “politica”, dell’atto di esercizio dei poteri di Autorità giudiziaria conferiti alle commissioni parlamentari dalla Costituzione, già oggetto di risalente interessamento da parte della giurisprudenza, prima della riscrittura dell’art. 111 Cost. e dell’introduzione del vigente codice di procedura penale, in una cristallizzazione che non ci si può esimere dal ritenere, almeno in parte, frutto di condizionamenti storico-politici ormai del tutto superati.

Giova considerare, a tale riguardo, che la fattispecie concreta in seno alla quale la giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi in senso contrario alla giurisdizione è quella relativa all’attività d’inchiesta della “Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia massonica P2” istituita con legge 23 settembre 1981 n. 527. Ma, a conforto del ragionamento della scrivente difesa, è la stessa Commissione P2, in sede di «considerazioni finali e proposte» della propria Relazione di maggioranza, a rilevare i seri «problemi connessi all'applicazione della norma costituzionale concernente l'istituto stesso dell'inchiesta parlamentare», evidenziando in particolare che «la Commissione nel corso dei suoi lavori ha dovuto registrare come la norma che estende a tali organismi i poteri dell'autorità giudiziaria, con i limiti inerenti, può dar luogo, quando dalla astratta previsione si scenda nel concreto delle attuazioni, ad alcuni problemi di non secondario momento», in quanto restano da «risolvere situazioni di delicato rilievo giuridico, con particolare riferimento alla tutela dei diritti dei singoli a fronte di provvedimenti autoritativi emanati dalla Commissione in tema di perquisizioni e sequestri», in un quadro normativo nel quale non viene espressamente prevista la possibilità di interporre gravame contro tali provvedimenti. Ma «non v’è parimenti dubbio che in tale quadro si viene a concretare per il cittadino una anomala situazione, tale che lo vede sprovvisto, nel caso indicato, di ogni mezzo di ricorso di fronte a provvedimenti che incidano sulla sfera dei diritti soggettivi», sicché «non è chi non veda come il problema sia di ordine più generale e meglio andrebbe prospettato con la elaborazione da parte del Parlamento di una legge-quadro» che «consentirebbe, ferme restando le prerogative del Parlamento e dei suoi membri in sede di inchiesta, di realizzare l’applicazione del dettato costituzionale senza peraltro dar luogo a situazioni di incerta tutela dei diritti dei singoli» (così nella “Relazione di maggioranza” della “Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia massonica P2” istituita con Legge 23 settembre 1981 n. 527).

L’argomentazione, ancorché de jure condendo, rende plasticamente il problema.

Ancora a distanza di circa trent’anni da tali evidenziazioni, un’agevole lettura del testo normativo che istituisce l’attuale Commissione parlamentare antimafia consente di escludere che il Legislatore si sia preoccupato, nel formulare la Legge 87/2013, di adempiere all’onere di prevedere strumenti di concreta attuazione dei principi costituzionali.

Tale considerazione induce a ritenere doveroso, per la salvaguardia dell’ordinamento, il tentativo di un’interpretazione “costituzionalmente orientata” della medesima Legge 87/2013, in senso favorevole alla giurisdizione, nell’impossibilità della quale non resterebbe all’On.le Tribunale adito che demandare ogni valutazione al giudice della legge.

Posto che il diritto all’effettività della difesa ed al giusto processo è da considerarsi diritto fondamentale inviolabile, anche nel caso di provvedimenti come quello di specie, e tenuto conto che il provvedimento de quo appare adottato nell’esercizio delle funzioni d’inchiesta quale esplicazione dei “poteri” di Autorità giudiziaria della Commissione parlamentare antimafia, occorre ricondurre alla parallela nozione di “limiti” cui tali poteri soggiacciono – come contemplati a valle dall’art. 1 comma 2 della Legge 87/2013 e, a monte, dall’art. 82 comma 2 seconda alinea della Costituzione – le norme che, a seconda dei casi, mutuando l’espressione dal gergo costituzionalistico, costituiscono i loro “contrappesi” procedurali, inclusi i meccanismi di tutela del singolo direttamente o indirettamente leso nell’esplicazione dei “poteri” stessi.

E ciò sia che si voglia ritenere l’atto de quo di natura “giurisdizionale”, sia che lo si intenda  invece  quale atto di natura “politica”: la Costituzione non pare escludere, infatti, la

tutela del cittadino nel caso di lesione derivante dall’attività “politica”.

Ci si domandava, in esordio del ragionamento, “se” ed “in quanto” le norme del codice di procedura penale siano applicabili nella fattispecie in esame, rispondendo in modo certamente positivo al primo quesito: orbene, anche la risposta al secondo thema si appalesa positiva, con riguardo all’intero sistema disciplinato dal codice di rito, inclusi gli strumenti di impugnazione dei provvedimenti ritenuti illegittimi.

E’ infatti fuor di dubbio che la Costituzione consenta espressamente, sempre e comunque, la tutela giurisdizionale da attuarsi mediante processo a chiunque ritenga che l’illegittimità dell’atto – anche d’indagine – abbia comportato una lesione dei propri diritti o interessi legittimi. D’altra parte, sussistendo delle “limitazioni” al potere dell’Autorità, sarebbe impensabile che uno Stato di Diritto non appresti un sistema di rimedi avverso atti tipici, quali sono – come nella specie – i mezzi di ricerca della prova regolamentati dal codice di procedura penale, anche laddove disposti dal potere legislativo nell’esercizio di una peculiare funzione d’inchiesta, che riveste i caratteri e, comunque, si esplica attraverso i poteri tipici del potere giudiziario.

Con riferimento al riparto della giurisdizione, tra ordinaria ed amministrativa, non sussiste tema di smentita circa la ricorrenza, nella specie, della prima: si verte, infatti, in materia di sequestro conseguente a perquisizione, istituti integralmente ed unicamente disciplinati dal codice di procedura penale.

Con riferimento a tali “mezzi di ricerca della prova”, il rimedio giurisdizionale tipicamente esperibile è, appunto, il riesame reale disciplinato dall’art. 324 c.p.p.

Quanto alla competenza a decidere,  in ordine  alla presente richiesta di riesame,  non v’è dubbio che la stessa debba radicarsi in capo all’On.le Tribunale adito, in composizione collegiale con funzione di giudice del riesame, ai sensi dell’art. 324 comma 5 c.p.p., posto che «l’ufficio che ha emesso il provvedimento» ha sede in Roma.

 

3. SULL’ILLEGITTIMITA’ DELL’ATTO IMPUGNATO.

 

L’art. 82  comma 1  della Costituzione  prevede  che  «ciascuna Camera  può disporre inchieste su materie di pubblico interesse»: l’estrema ampiezza della nozione di materia di pubblico interesse fa sì che le Camere possano disporre inchieste sulla quasi totalità degli argomenti che attengono alla vita del Paese, delle sue Istituzioni e della Collettività in generale.

Il potere d’inchiesta del Parlamento – che, a norma dell’art. 82 comma 2 Cost., si esercita a mezzo di apposita commissione – può avere ad oggetto anche specifici fatti costituenti reato, indipendentemente dall’attività di indagine svolta dell’Autorità giudiziaria. Invero, rientra nella nozione di “pubblico interesse” anche l’attività di contrasto e di repressione degli illeciti penali: in tal caso, l’intervento del potere legislativo si giustifica in virtù della sua funzione, che è quella di adeguare la legislazione vigente all’evoluzione dei comportamenti che assumono disvalore sociale. In tale ottica, l’attività delle Camere non si sostituisce a quella della Magistratura nell’accertamento dei reati, ma è propedeutica all’adozione di strumenti normativi intesi a regolamentare o vietare determinate condotte.

Al fine di consentire al Parlamento di perseguire i propri scopi,  la  Costituzione ha inteso dotare  le  commissioni parlamentari d’inchiesta dei poteri propri dell’Autorità giudiziaria (art. 82 comma 2 Cost.), consentendo loro, in tal modo, una libertà d’azione che altrimenti risulterebbe preclusa dall’esistenza di precise attribuzioni proprie del potere giudiziario: tuttavia, come si è rilevato ed ampiamente argomentato nel paragrafo precedente del presente atto, per espresso dettato costituzionale, nell’esercizio di tali poteri la Commissione procede, oltre che con i medesimi poteri, altresì con «le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria».

Il potere d’indagine parlamentare non è, quindi, “assoluto”, ma va esercitato nei limiti del dettato Costituzionale che, imponendo il rispetto delle “limitazioni” cui è soggetta l’Autorità giudiziaria, rimanda al compendio normativo che regolamenta l’attività d’indagine della Magistratura.

Ne  discende  che,  qualora  nell’esercizio dei  propri poteri d’inchiesta, una Commissione parlamentare decida di ricorrere ai mezzi di ricerca della prova disciplinati dal codice di procedura penale, è essa stessa soggetta – per espresso dettato costituzionale –  alle limitazioni imposte dal medesimo codice all’Autorità giudiziaria.

Tra  i  mezzi  di ricerca  della prova è annoverato il sequestro,  per il quale il codice di rito pone dei limiti a garanzia e tutela dei diritti vantati dai soggetti privati sulle res che possono costituire oggetto dell’atto ablativo.

A norma dell’art. 253 c.p.p. il sequestro è disposto con decreto motivato.

Presupposto indispensabile per l’adozione di qualsivoglia forma di sequestro è il fumus commissi delicti. Esso consiste nella probabilità della commissione di un reato e si sostanzia in un fatto astrattamente sussumibile nella fattispecie compiutamente descritta dal legislatore in una norma incriminatrice, che si assume essere stata violata.

In presenza del fumus commissi delicti, secondo espressa disposizione dell’art. 253 comma 1 c.p.p., possono costituire oggetto di sequestro esclusivamente le cose costituenti il «corpo del reato» e le cose «pertinenti al reato».

La  nozione  di  “corpo del reato”  risulta fornita dal legislatore, che qualifica tali «le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo» (art. 253 comma 2 c.p.p.) e che, quindi, si trovano in un rapporto di immediatezza col fatto-reato.

La nozione di cose “pertinenti al reato”, invece, non si rinviene nel codice di rito e ricomprende per costante giurisprudenza (per tutte: Cass., Sez. III pen., sent. 26 maggio 2015  n. 24603) tutte quelle res che sono in rapporto indiretto con la fattispecie concreta e sono strumentali all’accertamento dei fatti.

Nel caso che ne occupa è accaduto che la Commissione antimafia ha emanato il “Decreto di perquisizione e sequestro” oggetto della presente impugnativa (all. 1). L’atto in questione si appalesa illegittimo.

Si è ripetutamente evidenziato come che l’art. 82 comma 2 Cost. imponga alle commissioni parlamentari d’inchiesta di esercitare i propri poteri d’indagine nel rispetto degli stessi limiti cui soggiace l’Autorità giudiziaria.

Ne discende che, qualora nell’esercizio dei propri poteri d’indagine, la Commissione parlamentare antimafia intenda ricorrere al tipico mezzo di ricerca della prova disciplinato dall’art. 253 c.p.p., è necessario che ricorrano i presupposti per l’adozione dell’atto compiutamente previsti dalla legge e, tra questi, indispensabile è l’esistenza del fumus commissi delicti.

A tal riguardo,  la Suprema Corte ha sancito che «i provvedimenti di perquisizione e di sequestro adottati dall’autorità giudiziaria inquirente per finalità probatorie, inclusi dall’ordinamento processuale tra i mezzi di ricerca della prova, presuppongono l’esistenza di una precisa notizia di reato e la sua avvenuta iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. Gli stessi debbono essere corredati nella parte motiva da una pur sintetica indicazione, connessa alla dinamica fluidità della fase delle indagini preliminari, delle concrete fattispecie di reato ascritte all’indagato nei loro estremi essenziali di azione (condotta), di tempo e di luogo» (Cass., Sez. VI pen., sent. 31 gennaio 2012 n. 5930).

La Cassazione ha altresì precisato che «il sequestro probatorio trova giustificazione nella sola corrispondenza tra quanto emerge dalla segnalazione di reato e il contenuto della ipotesi legale, ed è istituto funzionale alla ricerca e all’assicurazione delle fonti di prova» (Cass., Sez. III pen., sent. 20 marzo 2013 n. 28151).

La finalità perseguita nella specie dalla Commissione antimafia con l’emanazione dell’atto impugnato non consente di derogare alla sua natura di mezzo di ricerca della prova ed alla sua funzione di assicurazione della prova, necessaria per l’accertamento di un reato e l’individuazione dei suoi autori.

Invero, nulla vieta che la Commissione indaghi su un determinato fatto, assicurandone la prova mediante il ricorso al sequestro probatorio, al fine di formulare proposte di carattere normativo alle Camere ed amministrativo al Governo, purché tuttavia il fatto oggetto d’indagine, per il quale viene disposto il mezzo tipico di ricerca della prova, rappresenti una precisa notitia criminis.

Infatti, il nostro ordinamento giuridico non consente, neppure ad una commissione parlamentare, di disporre il sequestro probatorio regolato dal codice di rito per le proprie attività d’inchiesta su un fatto che non presenta i requisiti minimi per essere considerato astrattamente corrispondente alla fattispecie descritta in una norma incriminatrice.

La lettura del provvedimento impugnato non consente di rilevare l’esistenza dell’acquisizione di qualsivoglia notitia criminis in capo alla Commissione antimafia. La parte motiva del decreto di perquisizione e sequestro non individua alcuna ipotesi di reato a carico di chicchessia e neppure reca l’indicazione di norme che si assumono violate.

La concretezza della sussistenza di un delineato comportamento illecito ipotizzato è esclusa dallo stesso testo del provvedimento oggetto della presente richiesta di riesame, laddove la Commissione parlamentare riporta che: «dalle audizioni finora svolte e dalla documentazione acquista, è emerso il concreto pericolo dell’infiltrazione di cosa nostra e della ‘ndrangheta in una parte della massoneria […] e si è altresì evidenziato che, parallelamente alla metamorfosi delle associazioni mafiose, sempre più collusive, il componimento di interessi illeciti può avvenire anche attraverso logge massoniche cui talvolta aderiscono esponenti della classe dirigente e dell’imprenditoria del Paese» (così nel Decreto impugnato, pag. 1).

Orbene, il riferimento in essa al «concreto pericolo» di infiltrazioni mafiose nella massoneria ed alla mera possibilità («può») del componimento di interessi illeciti attraverso logge massoniche è ontologicamente diverso e, per sua natura, contrario al requisito di determinatezza della condotta, richiesto per la disposizione del sequestro, che non può essere adottato a fronte di fatti meramente congetturali, quali quelli esposti nel provvedimento impugnato.

Ne consegue che, mancando una concreta notitia criminis, le cose sequestrate in esecuzione del decreto impugnato – come dettagliate nel verbale di esecuzione del provvedimento da parte dello SCICO della Guardia di Finanza di Roma (all. 2) – non possono essere qualificate “corpo del reato” e neppure “cose pertinenti al reato”.

 

Per tutti i motivi che precedono,

 

SI CHIEDE RIESAME

 

del Decreto impugnato, affinché l’On.le Tribunale di Roma, in funzione di giudice del riesame, voglia annullare l’atto e, consequenzialmente, ordinare l’immediata restituzione delle cose sequestrate al Dott. Fabio Venzi, sia in proprio che nella sua qualità di legale rappresentante pro tempore  della “GRAN LOGGIA REGOLARE D’ITALIA DEGLI ANTICHI LIBERI ED ACCETTATI MURATORI”.

 

Con espressa riserva di motivi nuovi, ai sensi dell’art. 324 comma 4 c.p.p.

 

Si depositano i seguenti documenti:

 

1) copia notificata del Decreto impugnato;

 

2) copia del verbale di sequestro;

 

3) copia della nota della Commissione del 24 gennaio 2017;

 

4) copia della nota della Commissione del 2 febbraio 2017.

 

Con riserva di deposito di ulteriori documenti.

 

 

Roma, 11 marzo 2017.

Tags:
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