Cronache
Zona grigia, professionisti al servizio dei clan. Ma la realtà è più complessa
Un caso di ‘ndrangheta con professionisti ritenuti al servizio di un clan. Tra loro anche poliziotti. I giudici in parte assolvono. Il pm appella ma...
Nella realtà è la criminalità organizzata a creare contesti ambientali con cui è facile collaborare, “sbagliare” o commettere leggerezze o ingenuità che risulteranno importanti per i clan.
Non esiste quasi mai un “terzo livello”, riferendosi a quel grumo di professionisti che lavora nelle istituzioni, tra le maglie della giustizia e dello Stato determinando le scelte dei clan stessi. E’ una pura mistificazione e una manipolazione, frutto della cultura del tempo passato, dell’onnipresente partito comunista che dettava le linee culturali di un’epoca cimentandosi in paradigmi in grado di rappresentare la realtà con sigle buone per fare i titoli dei giornali e in molti casi frutto della pura ignoranza (qualcuno ricorderà i fantomatici “servizi segreti deviati” o la “massoneria deviata”).
La realtà è un po' più complessa. I “professionisti” non danno ordini ma al massimo li ricevono o pagati profumatamente trovano soluzioni tecniche a problemi più ampi. Oppure il più delle volte sono semplicemente pedine che vivono negli stessi contesti locali chiusi dei malavitosi o hanno intessuto relazioni con persone collegate a questi, ambienti spesso facoltosi in cui ci si conosce e ci si frequenta ed è naturale condividere informazioni. Altre volte ancora sono totalmente estranei a collusioni eppure vengono a contatto con questi ambienti.
E’ in questo range di ipotesi, dall’estremo minimo a quello massimo, che si stanno muovendo la procura inquirente di Vibo Valentia e i giudici intervenendo nell’inchiesta “Purgatorio”. Al centro alcuni componenti del clan Mancuso e dei professionisti. Una storia particolare ed intricata ma emblematica di come la realtà sia più complicata delle sigle e di un mondo fatto di bianco e nero. Spesso le sfumature fanno la realtà e queste alla fin fine permettono di capire ciò che è reale da ciò che non lo è.
L’operazione “Purgatorio” è la storia di un traffico di reperti archeologici. Sotto la città erano stati scavati veri e propri tunnel, profondi anche 30 metri per trafugare reperti rari al fine di piazzarli sul mercato illegale, specialmente quello estero.
Per i magistrati dell’accusa l’opera dei professionisti coinvolti nell’inchiesta giudiziaria sarebbe stata quella di deviare l’attenzione sui clan rivali.
Il magistrato dell’accusa ipotizzava legami tra la cosca, un avvocato e due alti funzionari di polizia: l’avvocato Antonio Galati e gli ex vertici della Squadra Mobile di Vibo Valentia, Maurizio Lento ed Emanuele Rodonò. Il pm della Dda, Annamaria Frustaci aveva chiesto le condanna: 7 anni ed 8 mesi nei confronti di Galati, 6 anni e mezzo per Rodonò e 6 per Lento. Ma un anno fa scattò il primo grado di giudizio con due condanne ed un'assoluzione piena.
Il Tribunale collegiale con al vertice il giudice Alberto Filardo condannò a 4 anni e otto mesi l’avvocato Galati ma attribuendogli il reato di concorso esterno in associazione mafiosa al posto di associazione mafiosa vera e propria ipotizzata dal pm, oltre al reato di rivelazione del segreto d'ufficio. Cassate invece le contestazioni di concorso esterno a carico dei due funzionari di polizia. Per Maurizio Lento un'assoluzione piena, risultando per giudici totalmente innocente, mentre per Emanuele Rodonò rimase l’accusa di rivelazione di segreto investigativo, ma con l'esclusione dell'aggravante mafiosa. Secondo i giudici non vi sarebbero stati dirigenti della Squadra Mobile che avrebbero favorito il clan Mancuso.
Ma il pm Frustaci, e lo racconta benissimo in queste ore il cronista di giudiziaria Gianluca Prestia del Quotidiano del Sud, è tornato all’attacco andando in appello contro la sentenza. L’atto è controfirmato dal procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. “Le univoche emergenze captative e procedimentali”, scrive il pm, “sulla base delle quali sono stati ricostruiti i fatti per cui si procede, comprovano in modo chiaro il contributo effettivamente prestato dai due funzionari al sodalizio mafioso oggetto di indagine. Gli stessi, infatti, secondo quanto emerso in modo chiaro dalle intercettazioni, accettando supinamente di essere inseriti, letteralmente inglobati, nei circuiti relazionali, trasversali ed equivoco dell'avvocato Galati, hanno posto in essere azioni e condotte che, questo Giudice, anche a seguito del vaglio più rigoroso e attento, volto a ricercare la sussistenza anche della più recondita giustificazione, appaiono del tutto prive di qualsivoglia, lecita spiegazione, oltre che di portata allarmante, anzi devastante”. Il pm evidenzia a suo dire anche che “grava in modo indiscutibile sui due funzionari l'accusa di avere abdicato all'esercizio delle proprie funzioni in un territorio ad altissima densità criminale, lasciando l'inerme cittadinanza ancora più esposta al potere di assoggettamento di una delle più potenti e pericolose cosche del distretto”.
L’accusa torna all’attacco rigettando quanto deciso dal primo grado di giudizio.
Quindi ora con il processo si va in appello. Ma è probabile che scatti anche un terzo grado di giudizio.
Saranno i responsi delle sentenze a mettere un punto fermo sulla vicenda “Purgatorio”, a fare capire qualcosa in più di una storia intricata ma anche a permettere di aggiungere un tassello interessante su una materia spesso semplificata per fini distanti dal comprendere la realtà.