Culture
"Dieci lezioni sulla giustizia", il nuovo libro del magistrato Caringella
"Dieci lezioni sulla giustizia per cittadini curiosi e perplessi" di Francesco Caringella (Ed. Mondadori)
Un libro pedagogico, da leggere e far leggere, questo "Dieci lezioni sulla giustizia per cittadini curiosi e perplessi" di Francesco Caringella, magistrato autorevole, giallista di successo e saggista acuto e tempestivo (l'ultimo suo libro, con Raffaele Cantone, gran capo dell'autorità anticorruzione, "La corruzione spuzza" è stato un best seller).
In 144 pagine e un ricco corredo bibliografico, il magistrato snocciola e snoda in forma piana e popolare, a tutti comprensibile, le grandi questioni di fondo che attraversano la disciplina della dea bendata, dal tema della verità alla questione dei tempi processuali, dal ruolo e dai compiti del magistrato ai grandi dibattimenti storici.
Davvero un libro utile e gradevole da leggere da cui si imparano molte cose, a partire da una maggiore consapevolezza e responsabilità civica.
Le presentazioni - Presentato a Roma oggi, mercoledì 27 settembre, davanti a Raffaele Cantone e ai maggiori esponenti della magistratura italiana, il libro verrà riproposto sabato 30 settembre alle 18.30 presso il Castello Ducale a Ceglie Messapica (Br), nell'ambito della fortunata rassegna "Un Castello di libri", ideata e curata da Angelo Maria Perrino, direttore di Affaritaliani.it in collaborazione con l'assessorato alla Cultura.
SU AFFARITALIANI.IT UN ESTRATTO DEL LIBRO
Lezione prima - Che cos’è la giustizia?
Il processo a Gesù fu un processo lampo. Si svolse in un pugno d’ore, davanti al sinedrio e al procuratore di Roma, in almeno tre sedi diverse. Quei fatti, narrati nei quattro Vangeli canonici, rappresentano un caso giuridico tra i più dibattuti della storia.
Dopo l’Ultima Cena con i propri discepoli, Gesù fu arrestato nell’orto del Getsemani, vicino Gerusalemme. Poco dopo venne interrogato dai sacerdoti e dalle autorità politiche locali: Anna, Caifa, il sinedrio, Pilato, Erode Antipa. Tutti sembrarono concordare su un verdetto di colpevolezza: Gesù aveva osato equipararsi a Dio, e davanti a Pilato aveva confermato di essere il «re dei Giudei». Così venne decretata la pena di morte per crocifissione.
Nel racconto Il procuratore della Giudea (1902), Anatole France immagina la reazione dell’ex governatore romano Pilato, ormai in pensione, di fronte all’invito a confidarsi rivoltogli dal collega di un tempo, il governatore di Siria.
«Ponzio, ti ricordi di Gesù il Nazareno che fu crocifisso non so più per quale delitto?» Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia, si portò la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo. Poi, dopo qualche istante di silenzio: «Gesù» mormorò, «Gesù il Nazareno? No, non ricordo».
Nella sua memoria si era spenta l’eco di quel processo evocato da Tacito in poche righe nel libro XV degli Annales: «I Cristiani … prendevano nome da Cristo che era stato condannato al supplizio ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio» (44, 2-5).
Fatto sta che nessuno, fra Pilato, Tacito e altri personaggi e storici dell’epoca, avrebbe mai potuto immaginare che di quel processo, tenutosi in una lontana provincia dell’Impero romano, si sarebbe ancora parlato a distanza di duemila anni. Secondo lo studioso britannico Samuel S.G. Brandon, quella sentenza fu «la più importante della storia dell’umanità. Nessuna azione giudiziaria intentata contro una persona è conosciuta da un numero altrettanto grande di persone. Gli effetti del processo di Gesù nella storia umana sono incalcolabili».
Dunque, quello contro Gesù può essere definito «il processo più importante della storia»? Probabilmente sì. E fu anche, a tutti gli effetti (difficile sostenere il contrario), il più grande errore giudiziario della storia. Accuse infondate, tempi di giudizio rapidissimi, assenza di testimoni credibili, palese pregiudizio verso l’imputato, superficialità, sciatteria. L’imputato più innocente di sempre fu riconosciuto colpevole e condannato a morte.
Se ne trova conferma nel Vangelo di Marco, secondo il quale non furono trovati testimoni che confermassero con certezza le accuse mosse a Gesù:
I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi. Alcuni si alzarono a testimoniare il falso contro di lui, dicendo: «Lo abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo”». Ma nemmeno così la loro testimonianza era concorde. (Mc 14,55-59)
Certo, esaminare la giustizia di quel tempo con la lente del moderno apparato giuridico potrà sembrare un esercizio di stile. Eppure, se vogliamo indagare il principio di verità e il significato più profondo del termine «giustizia», ripensare il processo contro Gesù appare una scelta condivisibile, perché più di ogni altro esso incarna il mistero del processo stesso e la fallibilità della giustizia umana. E ci spinge inevitabilmente a porci la fatidica domanda: «Che cos’è la giustizia?».
Proviamo a dare qualche risposta a questo difficile interrogativo.
Il desiderio di affermazione e la brama di potere sono componenti naturali dell’essere umano, e i conflitti tra interessi contrapposti ne sono una conseguenza tanto dolorosa quanto inevitabile. Il bisogno di giustizia è quindi un’esigenza atavica, avvertita dall’essere umano ben prima che, cinquantamila anni fa, conquistasse l’uso della parola. È un bisogno collettivo che attraversa i tempi e i governi, rimanendo un punto fermo nell’animo umano.
Quest’urgenza, prima di tutto etica, e sostenuta poi anche da ragioni di natura sociale ed economica, ha determinato un perfezionamento dei meccanismi di controllo sociale e di regolazione dei conflitti.10 Dalla giustizia sommaria si è passati a sistemi più complessi e raffinati. L’ordalia – cioè il giudizio divino invocato mediante una prova mortale che l’imputato avrebbe dovuto superare per dimostrare la sua innocenza – si è trasformata gradualmente in processo regolato dalla legge. Alla lotta materiale e violenta si è sostituita quella giuridica e processuale, così come l’autodifesa e la vendetta sono state soppiantate dal diritto e dal giudizio di un magistrato, chiamato a stabilire in modo imparziale ragioni e torti.
Ma non è tutto così semplice. La stretta connessione fra diritto e potere (politico, economico, religioso) ha fatto sì che la giustizia sia stata esercitata per millenni nell’interesse dei più forti. Ricordava Tucidide che «i forti dominano sempre i più deboli; e … questi ultimi farebbero lo stesso, se un giorno le parti fossero invertite». Da questo punto di vista non è azzardato sostenere che la storia dell’uomo sia una storia di abusi e di ingiustizie.11 E di clamorosi errori giudiziari, che hanno poi segnato grandi svolte nell’evoluzione del pensiero, soprattutto occidentale.
Il processo a Socrate (399 a.C.) ha fissato i confini tra politica e filosofia, la condanna di Gesù quelli tra uomo e Dio, il giudizio nei confronti di Giovanna d’Arco (1431) quelli tra guerra e santità, il processo a Martin Lutero (1521) quelli tra passato e futuro della Chiesa e dell’umanità, l’incriminazione di Galileo (1633) quelli tra scienza e fede, la condanna di Dreyfus (1894 e 1899) quelli tra politica e informazione, l’accusa a Oscar Wilde (1895) quelli tra fantasia della letteratura e spada della legge, i processi di Norimberga (1945-46)12 e la condanna di Nelson Mandela (1964) le relazioni, rispettivamente, tra diritto e forza delle armi e tra brutalità della discriminazione e sogno della libertà.
La storia, tuttavia, è anche un processo graduale, non solo la successione di grandi eventi. Così, con l’avvento tra l’Ottocento e il Novecento delle Costituzioni liberali e delle forme di governo democratico, la giustizia è stata riconosciuta come indipendente dal potere politico.
Sempre di «giustizia umana», però, si tratta. E qui sorge un altro interrogativo, di natura filosofica: la giustizia, per il solo fatto di essere diventata indipendente dalla politica e dalla forza, è in grado di essere davvero giusta?
Da un certo punto di vista, no. Anzi, mai. La «giustizia umana» è una contraddizione in termini.
Non è proprio dell’uomo giudicare un altro uomo e decidere del suo futuro. Mi spiego meglio. L’atto del giudicare ha in sé una componente «sovrumana» o, se vogliamo, «disumana», incompatibile con le debolezze e i limiti dell’essere umano.13 Il giudice è un uomo che si fa Dio, ammonisce Jean-Paul Sartre e, prima di lui, André Gide nei suoi Ricordi della Corte d’Assise. 14 E ce lo ricorda con la sua potenza Albert Camus: «Non si può negare che, almeno per il momento occorrono dei giudici, no? Tuttavia non riesco a capire come un uomo si possa proporre da sé per esercitare questo compito strabiliante».15 Il processo è un luogo misterioso16 e paradossale,17 mentre la sentenza che pone fine al giudizio è un atto violento, caratterizzato da un’inaudita asimmetria tra il giudice che emanail verdetto e l’imputato che ne ascolta le parole per conoscere il suo destino.
Eppure, in ogni società l’amministrazione della giustizia è una pratica inevitabile. È una necessità sociale, oltre che un bisogno connaturato all’uomo. Regola e convivenza sono due facce della stessa medaglia.18 I limiti antropologici della razza umana non ne cancellano l’oggettiva centralità per ognuno di noi, dalla nascita alla morte.
Le pronunce giurisdizionali toccano ogni giorno temi sociali ed etici che hanno a che fare con il nostro concetto di umanità e interrogano il nostro sistema di valori. Si pensi alle decisioni sul diritto di vivere e sul diritto di morire, sulla facoltà di cambiare sesso con o senza operazione chirurgica, sulle nozze tra omosessuali e sul connesso diritto all’adozione (la cosiddetta «stepchild adoption»), sull’aborto e sull’eutanasia, sul danno da morte e sul diritto del malato a non curarsi. Al cospetto di sentenze che parlano alle nostre coscienze, è certamente lecito chiedersi se la giustizia sia all’altezza del compito che le viene assegnato.
Da giudice penale di prima nomina ho firmato negli anni Novanta, in piena inchiesta «Mani pulite», il primo mandato di cattura nei confronti dell’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi. Quando, anni dopo, seppi che era morto a Hammamet, senza poter tornare in patria per difendersi da uomo libero e, prima ancora, da uomo sano, provai una forte emozione, e mi chiesi se la mano della giustizia non fosse stata troppo dura contro un uomo che fa parte della nostra storia.
Il mio non era pentimento, e neanche rimorso. Gli atti dei giudici, come quelli di qualsiasi uomo, devono essere valutati nel momento, nelle condizioni e nel contesto in cui vengono compiuti. Il senno di poi è un pessimo criterio emotivo di valutazione, che travisa il significato dei comportamenti e ne distorce i moventi. No, la mia era compassione, empatia, partecipazione a una vicenda umana, immedesimazione nel destino di un uomo che avevo incontrato nel mio percorso. E, soprattutto, era una riflessione, se vogliamo impaurita, sul potere dei giudici di incidere sulle esistenze degli individui e di modificare il corso della storia.
L’inchiesta detta «Tangentopoli», iniziata il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, ha infatti segnato la storia del Paese, mandando in pensione un’intera classe politica e inaugurando la stagione della Seconda Repubblica. È la dimostrazione plastica di come la giustizia possa cambiare non solo i destini dei singoli, ma anche la vita di una collettività, e di come possa diventare un fenomeno popolare, perché, grazie all’attenzione mediatica, gode di un consenso plebiscitario e incondizionato che trasforma i magistrati in figure idealizzate e gli imputati in esseri senza valore né dignità.
Di fronte a un potere che incide così profondamente e pesantemente su tutti noi, è inevitabile che ognuno si chieda che cosa sia la giustizia e quando una sentenza possa definirsi giusta.
Dobbiamo allora tentare di rispondere alla domanda che dà il titolo al capitolo: «Che cos’è la giustizia?».
Ora, definire la giustizia è pressoché impossibile. È molto più facile, invece, fare degli esempi di ingiustizia. L’esperienza quotidiana ci offre un lungo catalogo cui attingere: la condanna di un innocente, l’assoluzione di un colpevole, la truffa ai danni di un’assicurazione, la ripartizione ineguale degli utili di un’impresa tra soci che hanno dato lo stesso contributo, la bocciatura di un candidato meritevole a un concorso, la vittoria ottenuta da un atleta grazie al doping.
Tuttavia, per quanto sia salda la nostra convinzione che in ciascuno di questi accadimenti sia stata commessa un’ingiustizia, è difficile trovare una formula che riassuma in modo adeguato le loro caratteristiche comuni.
All’inizio del libro V dell’Etica Nicomachea Aristotele osserva che le parole «giusto» e «ingiusto» sono ambigue.20 Ciononostante, non esita ad affermare che la giustizia è una virtù completa, perché chi la possiede è capace di servirsene anche nei confronti degli altri e non solo di se stesso. «Bisogna essere giusti prima che generosi, come si ha la camicia prima dei pizzi» ammonisce dal canto suo Chamfort.21 La giustizia è dunque una virtù sociale, che riguarda le interazioni delle persone; o meglio, è quella componente della morale che regola in senso altruistico e conforme a equità i rapporti fra i membri di una comunità. Giusta è la persona che è in grado di avere l’atteggiamento appropriato nei confronti dei suoi simili, che non agisce solo a proprio vantaggio, che persegue il bene comune. La giustizia dei tribunali, che partecipa delle stesse caratteristiche dell’honestas ciceroniana (la rettitudine, l’altruismo, il rigore), è quindi un’azione profondamente solidale, che risolve i conflitti applicando il diritto positivo allo scopo di conseguire un vantaggio collettivo.
Quest’accezione etica della giustizia si manifesta nella sua dimensione distributiva e in quella correttiva, che ne fotografano la duplice funzione di assicurare un’equa redistribuzione delle ricchezze e di garantire una reazione sociale ai comportamenti iniqui e arbitrari. La giustizia deve assicurare a ciascuno ciò che gli spetta in base alle leggi e all’equità, concedendo a ogni individuo il diritto alla più estesa libertà compatibile con le libertà altrui e rimuovendo le diseguaglianze ingiustificate. Nella concezione aristotelica, il giusto e il bene coincidono, in quanto l’atto del giudice che applica la legge al singolo caso è l’affermazione dei valori etici perseguiti dalla regola di diritto pensata nell’interesse generale.24 D’altro canto, prima dell’avvento del principio illuministico della separazione dei poteri, c’era una forte coesione tra il mondo giuridico e quello politico, con relativa concentrazione in capo al medesimo soggetto del compito di fissare la regola giusta e di procedere alla sua applicazione al caso concreto.
La giustizia è in grado di assolvere a questa funzione benefica quando riesce a coniugare i tre valori della libertà, della pace e dell’uguaglianza. O, per dirla con Michael Sandel, della libertà, del benessere e delle virtù.
È chiara a questo punto la connessione, sottolineata da Hans Kelsen, tra giustizia e felicità. L’aspirazione alla giustizia è l’eterna aspirazione degli uomini alla felicità. La giustizia è felicità sociale. È quella felicità, piena e speciale, che viene garantita da un ordinamento equo e solidale. Si deve aggiungere, in questa prospettiva, che non vi può essere un ordinamento giusto, ossia un ordinamento che garantisce la felicità di tutti, fintantoché si intende il concetto di giustizia nell’accezione egoistica di felicità individuale. La felicità non può essere garantita dallo Stato, se per essa si intende un valore soggettivo e se, di conseguenza, individui diversi hanno idee diverse su ciò che costituisce la loro felicità. La felicità che può essere assicurata da un ordinamento sociale deve essere necessariamente la felicità in senso oggettivo-collettivo, vale a dire il soddisfacimento di bisogni che siano riconosciuti meritevoli di essere soddisfatti dalla collettività tramite la legge.
Sotto questo profilo, la giustizia rappresenta quindi una meta ideale, il «dover essere». Il diritto stabilito dalle leggi e applicato dai giudici deve quindi cercare di colmare lo iato tipicamente umano tra l’«essere» e il «dover essere».
Allora il diritto è «giusto» se il suo contenuto è equo e coincide con i princìpi innati, chiamati di «diritto naturale» perché «naturalmente» insiti in ciascuna persona.
La giustizia è raggiunta quando sono stati correttamente compiuti con successo, uno dopo l’altro, tre passi indispensabili, ovvero quando 1) il bene comune sia stato identificato secondo parametri etici e sociali,32 2) la legge lo tuteli adeguatamente con i suoi precetti e 3) il giudice applichi in modo corretto la legge ai fatti accertati nel corso del processo.3
In queste pagine ci limiteremo a esaminare la «giustizia processuale», ossia il terzo stadio di quel meraviglioso anelito dell’uomo sociale che è la giustizia, senza affrontare il gravoso compito di stabilire «ciò che è giusto» e di analizzare la capacità della legge di interpretarlo in modo appropriato alla luce dei princìpi etici e dei valori naturali.
Più modestamente vogliamo esaminare il contributo all’affermarsi della giustizia che può essere dato nelle aule di tribunale, soffermandoci sul momento cruciale dell’accertamento da parte del giudice dei fatti ai quali applicare la prescrizione normativa. In altre parole, ci occuperemo di quella particolare angolazione della giustizia che è l’«accertamento della verità», ossia l’operazione attraverso la quale chi è chiamato a giudicare ricostruisce i fatti, mettendo a confronto le diverse versioni fornite dalle parti in causa. Non si tratterà, quindi, della «filosofia» della giustizia, ma dei «meccanismi» della giustizia, che si occupano delle vite reali di uomini e di donne in carne e ossa.3
Si prenderà in esame in particolare il processo penale, nel quale il giudice è come uno storico chiamato a stabilire cosa sia effettivamente successo, anche se le considerazioni che proveremo a svolgere sulla funzione del processo e sul ruolo del giudice sono applicabili ad altri tipi di procedimenti giudiziari.
Nelle società contemporanee la giustizia si identifica con un’istituzione, un potere, una garanzia, un bene comune. Ogni cittadino dovrebbe avere fiducia nella giustizia e in chi la rappresenta. Il grande giurista Piero Calamandrei affermava che «per trovar la giustizia bisogna esserle fedeli: essa, come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede». Quindi non solo fiducia, ma fede. Dobbiamo credere che la giustizia possa tendere all’immagine che, dal 1494, la rappresenta come una donna con una benda sugli occhi (laddove la benda è sinonimo di imparzialità e incorruttibilità, di una giustizia che non guarda in faccia a nessuno).
Bisogna avere fede anche nella nostra giustizia? Francesco Guicciardini, nei suoi Ricordi politici e civili, ironizzava osservando che le sentenze dei nostri tribunali, con tutte le cautele processuali che i giuristi hanno escogitato per renderle meno fallaci, riescono a essere giuste solo cinquanta volte su cento, come quelle dei giudici turchi, passate alla storia per essere decise alla cieca. Un confronto un po’ impietoso, non trovate?
Se la liturgia della giustizia, celebrata nelle pubbliche udienze e nelle camere di consiglio, fosse così casuale e capricciosa, queste pagine non avrebbero senso e chi le scrive farebbe bene a cercarsi un altro lavoro. Meglio affidarsi ancora una volta alle parole di Calamandrei, secondo cui la forza di uno Stato civile si manifesta nello sforzo, mai inutile anche se talora disperato, di assicurare una giustizia vera ed efficace ben al di sopra della soglia del cinquanta per cento.
Diverso è il discorso che riguarda i singoli processi, lambiti, oltre che dall’eventualità remota della malafede e della corruzione, dal rischio dell’errore che connota ogni azione umana e, quindi, dall’incapacità di colmare lo iato tra il nobile fine e i mezzi fallibili.
Ogni legge, anche la migliore, richiede l’accertamento, da parte del giudice, del fatto cui applicare la norma. La ricostruzione degli accadimenti è però un’operazione intrinsecamente incerta. Perciò l’errore giudiziario, che può tradursi tanto nella condanna di un innocente quanto nella concessione della libertà a un criminale, non è eliminabile per mezzo di leggi e riforme, in quanto discende dalla fragilità dell’essere umano.
La ricerca della verità – autentico compito del giudice, in quanto presupposto per l’applicazione della legge e quindi strumento di giustizia – è una sfida temeraria e ce ne occuperemo nel prossimo capitolo. Qui, invece, dobbiamo ricordare che il processo, attraverso cui la giustizia si invera nel caso concreto, è una delle rare azioni dell’uomo senza altri fini. Si tratta, infatti, di un’attività che deve solo dare risposta a una domanda, ossia risolvere un problema, senza una ragione trascendente il processo stesso. Per questo motivo la verità affermata dal giudice deve essere quella che risulta dal processo e lo scopo del giudizio, ossia la sentenza, è un atto interno al processo stesso.
Come ha recentemente ricordato Guido Calabresi, il processo non ha il compito di risolvere problemi sociali, impartire lezioni morali o correggere le condotte individuali. Un giudice che cedesse alle lusinghe di una finalità sociale ed etica peccherebbe di vanità e di presunzione, diventando un giustiziere, a metà tra il filosofo e il politico. Il suo mestiere, viceversa, consiste esclusivamente nella soluzione dello specifico problema sottoposto al suo giudizio.
Tuttavia, c’è qualcosa di più, che ha a che fare con il giudice e con la «sua» giustizia. Ed è l’umiltà necessaria per analizzare un caso e per avvicinarsi quanto più possibile a una sentenza equa, che richiede anche la piena comprensione della vicenda umana di ogni imputato, ovvero la persona oltre i fatti.
Una sentenza non deve stabilire solo se è stato commesso un reato, ma anche perché è stato commesso. Deve giudicare, non punire. Chiunque può punire, perché, come ricordava Salvatore Satta, si tratta soltanto di un’azione, brutale per giunta. Anche Minosse punisce, avvolgendo la coda. Il giudizio è invece un atto sublime, meraviglioso, profondamente umano.
Satta, grande conoscitore della macchina giudiziaria, coglieva perfettamente la dimensione umana della giustizia quando ammoniva che se non è sempre vero che al processo segue una pena, è invece sempre vero il contrario: «Il processo è una pena».
La mano della giustizia che si leva sulla testa di un uomo è di per sé una punizione, per il carico di ansie, di paure e di dubbi che si addensano sull’imputato e sulla sua famiglia. Una pena infinita, a causa dei tempi biblici della giustizia e delle insanabili ferite morali e sociali prodotte dall’esposizione alla gogna.
Il processo è una pena, spesso la sola vera pena. Il genio di Blaise Pascal ha fissato per sempre questa verità in un pensiero sublime: «Gesù Cristo non ha voluto essere ucciso senza le forme di giustizia, perché è ben più ignominioso morire attraverso un giudizio che per una sedizione ingiusta».40 Nella morte di Gesù si coglie dunque la relazione tra giustizia umana, che condanna Gesù ingiustamente, e quella divina: il condannato, Cristo, diventa, nella giustizia divina, avvocato dei suoi carnefici, chiedendo al Padre di perdonarli, «perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
Non solo. Se il processo è in sé una pena, una sentenza di assoluzione è l’ammissione dell’«ingiustizia del processo» e, quindi, di un errore giudiziario. La «pena del processo» è in ogni caso sempre lì, una ferita che sanguina per anni, un’ombra invisibile che accompagna la vita di un uomo.
La comprensione di questa realtà umana e psicologica obbliga il giudice a una riflessione assai ponderata sull’opportunità di iniziare un processo contro un uomo che potrebbe esserne ingiustamente distrutto.
La stessa sensibilità che deve spingere il magistrato a evitare l’avvio di un procedimento giudiziario nei confronti di un possibile innocente è la stella polare che il giudice deve seguire nel momento della scelta della pena da applicare all’imputato risultato colpevole. La sentenza deve essere commisurata, oltre che all’entità del danno arrecato dall’imputato, alle ragioni che l’hanno spinto a commettere il reato. Il magistrato deve giudicare l’azione dell’uomo dopo averla compresa fino in fondo.
Esposte queste riflessioni sulle finalità della giustizia, sul significato della (o delle) verità da accertare e sulle qualità umane che il giudice deve possedere per cercarla, torniamo alle domande da cui siamo partiti. Sono giuste le sentenze che hanno deciso le vicende della politica in Italia e nel mondo? Sono giusti i verdetti che ogni giorno regolano i destini di uomini e donne nelle aule dei tribunali? Si tratta di interrogativi comprensibili, ma destinati a rimanere senza risposta, perché non esiste la sentenza giusta o sbagliata in senso assoluto. Tutte le sentenze sono giuste e, nel contempo, sbagliate, visto che la verità che ogni decisione afferma è soggettiva, relativa, e quindi fallibile.