Culture

"La figlia della memoria" di Adele Desideri (Ed. Moretti&Vitali)

“La figlia della memoria” di Adele Desideri: un riscatto psicologico da fragilità e disavventure

Di Ottavio Rossani

 

La figlia della memoria (Moretti&Vitali, 2016, pagg. 165, euro  15) di Adele Desideri racconta la storia di Andreina, che si sente amata ma non compresa dal padre, il quale pare preferire la sorella Tude, un po’ tarchiata e anche cattiva. Andreina si sente, inoltre, trascurata dalla madre, che - tormentata dalla depressione e da un nevrotico narcisismo - spesso non è in grado di occuparsi delle figlie con la dovuta tenerezza: le allontana, insofferente alla loro presenza.

Sin dalla nascita, Andreina “sente” di non essere desiderata. Ancora in fasce, viene ricoverata sotto la tenda a ossigeno per riprendersi da una polmonite: questa esperienza diventa, per la protagonista, il paradigma dell’abbandono della madre e, poi, di molti di coloro ai quali con il passare degli anni si attacca e dai quali chiede amore, quasi sempre non corrisposto, almeno non come lei si aspetterebbe. La nota critica di Franco Loi e la prefazione di Davide Rondoni attribuiscono a questa storia una legittimità letteraria di riuscito valore. Loi accenna a una capacità di “distacco” progressivo dagli eventi negativi che accompagnano la crescita. Rondoni parla di “racconto di una carnalità irraggiungibile per tutta la vita. Il lungo percorso di un’accettazione. E in fondo non s tratta di questo inondi storia? Riuscire ad accettarla. Non si scrive per questo?”.

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Il gioco della memoria razionalizza con astuta ironia, i sentimenti di vittima rifiutata, di eroina incantata da sogni e romanzi epici, di bambina cresciuta insieme a un anziano zio sordo - che la accudisce con un affetto tanto delicato quanto troppo affettuoso, anche morboso - e poi di adolescente inquieta e passionale., quindi di donna con i sogni infranti.

Andreina è stata delusa dall’egoismo e dalla brutalità del mondo; passionale, è stata angustiata dalla sua fede nel grande amore verginale; discendente da una nobile stirpe toscana, male si è adattata ai modi poco sobri della famiglia del fidanzato ricco, “bello e fatuo”.

La memoria scava dentro ricordi annebbiati e fa riemergere episodi, usi, lessico familiare, leggende e facezie di un padre eccessivamente sempre di buon umore, emicranie e vanità della madre, nostalgie e rammarichi per l’incanto degli anni belli trascorsi nella villa padronale di Valvole (ci abitavano i nonni, che ospitavano tutti i nipoti soprattutto nei periodi di festa). Da quel paesino toscano, magico luogo delle vacanze spensierate, lei si è portata via per sempre una strana malattia chiamata “valvolite”.

figlia della memoria
 

Asilo, scuola, navigazioni nel mare di Sardegna, mondanità, intolleranza davanti a comportamenti saccenti o razzisti nei confronti di compagne più deboli (Andreina scaglia la cioccolata bollente sulla “contessina” Maria Antonietta Prandoni che sta minacciando di bruciare, con la stessa bevanda ustionante, una ragazza nella mensa del collegio delle Orsoline, solo perché è povera): sono tutti momenti di una cavalcata onirico/fantasiosa - ma anche estremamente realistica - sulla giostra impazzita dei sentimenti, molto spesso traditi a vantaggio di un’apparenza luminosa, in realtà contraddittoria e claustrofobica.

Il libro si disvela come un crescendo di situazioni ora comiche ora davvero tragiche, viste e raccontate dall’occhio ormai adulto della donna. Nell’essere stata bambina “abbandonata” e iniziata a esperienze affettive caratterizzate dall’ambivalenza - oppure a momenti di ingenuo erotismo infantile, che però non sapeva e non poteva comprendere, e perciò l’hanno segnata - Andreina, divenuta adulta, trova le motivazioni profonde delle sue fragilità giovanili e della sua grave depressione durante la lunga e controversa crescita.

La dimensione spirituale che Andreina recupera in età adulta funziona, infine, da specchio retrovisore sulle delusioni, sulle privazioni subite. Funziona come filtro per recuperare - molti anni dopo gli eventi narrati – momenti, ambienti e personaggi del passato e per rielaborarli con uno stile caustico e romantico insieme, che nelle ultime pagine del romanzo evolve verso un’ esperienza decisamente mistica.

Andreina, dopo il percorso esistenziale che dall’innocenza è sprofondato nell’inferno di una dissociazione, non clinica, ma fattuale, materiale, corporale, fino all’annullamento della propria dignità, riesce a trovare la forza, il coraggio e la pazienza per risalire dal pozzo della perdizione al cortile della salvezza amorosa, allo specchio della chiarificazione e della pacificazione con se stessa.

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La scrittrice inventa una lingua elegante, spesso forbita, con toscanismi utili a sprofondare nella battuta corrosiva, ma anche colloquiale, evocativa, provocatoria, ricca di neologismi e di funzionali recuperi di fonemi desueti.

La figlia della memoria è la storia di una ragazza che diventa adulta pagando sofferenze e incomprensioni, ma è anche una denuncia risentita verso il rapporto tra famiglia, scuola, e società che, in particolare negli anni cruciali tra i Sessanta e gli Ottanta del Novecento, si è in pratica disfatto. Contrasti sociali, politica, terrorismo, edonismo sono lo sfondo di questa vicenda che è certamente romanzo di formazione, ma anche documento di un’epoca sociale in cui la media borghesia, in particolare del nord Italia, non ha saputo trovare l’equilibrio tra una cultura conservatrice che andava scomparendo e una nuova visione della società segnata da velleitarismi, proteste e appetiti falsamente rivoluzionari, e in contemporanea dal ritorno a ideali fantasiosi e crisi spirituali incontrollabili. L’esperienza di Andreina si riassume così: dall’abisso alla rigenerazione attraverso una vocazione religiosa. Un libro che certamente ha passaggi autobiografici (“ognuno scrive di quel che veramente conosce” sostiene un luogo comune letterario), che però sono stati abilmente trasfigurati in una narrazione che, a dire dell’autrice, è fantastica e in cui i personaggi sono assolutamente inventati. Crederle non ha alcuna importanza. Quel che vale è il ritmo di questa storia mozzafiato, che non ha bisogno di un delitto per reggere la tensione di un’indagine psicologica sugli anni cruciali della crescita, fino alla definizione di una vocazione di vita, di un abbandono all’assoluto, rinunciando alla pulsione autodistruttiva che in qualche riga fa capolino.