Economia

Eni, la tregua in Libia Sarraj-Haftar? Mette al sicuro un miliardo di utili

La conferenza di Berlino sulla Libia ufficialmente è stata un successo, col raggiungimento di un accordo di massima su un cessate il fuoco permanente, sull’embargo alla vendita di armi e sulla necessità di non avere alcuna ingerenza o sostegno militare da parte di paesi stranieri. In pratica però la conferenza è fallita, non essendo minimamente riuscita ad avvicinare le posizioni di Fayez al-Serraj e Khalifa Haftar, che infatti non si sono neppure incontrati.

Per l’Italia, la cui posizione è apparsa a dir poco tentennante, la crisi libica ha un costo, direttamente calcolabile: quello della minore produzione petrolifera e di gas da parte di Eni. Il cane a sei zampe è presente in Libia ormai dal 1959. Nel 2018 il gruppo aveva in corso attività di esplorazione in 6 aree contrattuali (onshore nel deserto libico, nelle aree A, B, E, F, E e D, e offshore di fronte a Tripoli, aree C e D) condotte sulla base di contratti “Exploration and Production Sharing” che scadranno tra il 2038 e il 2043.

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Nel 2018 la produzione di petrolio in quota Eni è stata di 302 mila barili al giorno, quella di gas (prodotto dai giacimenti di Wafa e Bahr Essalam operati da Eni e trasportato fino a Gela, in Italia, attraverso il gasdotto Green Stream) è stata di 33,4 milioni di metri cubi al giorno. Già questi numeri danno una prima indicazione del danno che la chiusura di terminal e porti della Libia centrale e orientale, decretata dalla compagnia petrolifera di stato libica, National Oil Corporation (Noc), per assecondare Haftar, de facto sostenuto dalla Francia (oltre che da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), potrebbe causare se dovesse trasformarsi in uno stop totale dell’export libico.

Il condizionale è d’obbligo perché per ora danni non ve ne sono, dato che la produzione di gas e petrolio (e le installazioni del gasdotto Green Stream) è concentrata nella Tripolitania, sotto il controllo degli uomini al-Serraj, mentre non ha interessi nella Cirenaica controllata da Haftar. Non a caso già nel 2016 l’ex numero uno di Eni (ed Enel), Paolo Scaroni, suggeriva di non cercare di mantenere artificialmente in vita “l’invenzione coloniale” della Libia (creata nel 1934 dagli italiani) e favorire invece la nascita di più stati indipendenti, magari tra loro federati, appunto la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan, ognuno libero di gestire i propri giacimenti di petrolio e gas naturale.

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In astratto se al-Serraj cadesse e l’Italia e le sue aziende dovessero finire con l’essere estromesse da ogni business da parte di Haftar, Eni (peraltro molto ben radicata nel territorio e quindi al meno in parte al riparo dal rischio) potrebbe arrivare a perdere l’equivalente di una produzione di 110 milioni di barili di petrolio l’anno (circa il 16% rispetto ad una produzione totale di circa 690 milioni l’anno). Produzione che dovrebbe essere compensata, come in parte già avvenuto nel corso del 2019, spingendo sull’acceleratore di altri giacimenti come quelli in Egitto, Angola, Messico e Norvegia oltre che sui business complementari del futuro, dalle bio-raffinerie, alle energie rinnovabili sino agli impianti “waste to fuel”. 

Una strategia che comunque richiederebbe tempo per produrre risultati: visto che l’attuale piano industriale prevede un incremento della produzione media al ritmo del 3,5% l’anno, potrebbero dover occorrere tra i 3 e i 3,5 anni per riuscire a compensare il 100% della produzione libica. Alle attuali quotazioni di 65,6 dollari al barile si tratterebbe potenzialmente di un danno in termini di minor valore della produzione pari a 6,5 miliardi di euro l’anno su un fatturato stimato dal consenso degli analisti attorno ai 74,8 miliardi di euro. 

Un danno che peraltro tenderebbe ad azzerarsi nell’arco di poco più di un triennio e che è quindi stimabile, in prima approssimazione, in circa una decina di miliardi di euro complessivi. Sempre in base agli ultimi numeri di Eni, in termini di utile netto adjusted (4,58 miliardi nel 2018, circa 2,2 miliardi nei primi nove mesi 2019) l’impatto negativo potrebbe oscillare tra i 470 e i 730 milioni di euro l’anno, ovvero tra 700 milioni e un miliardo di euro complessivi.

Luca Spoldi