Portafoglio - I mercati finanziari e lo strappo di Trump sul clima
Portafoglio/ La decisione di Trump di rompere l'accordo sul clima non pare in grado di far decollare i comparti petrolifero e minerario
La decisione di Donald Trump di far ritirare gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima non ha convinto Wall Street, dove il commento quasi unanime è che gli unici "vincitori" a breve potrebbero essere i titoli delle fonti fossili come petrolio, carbone e gas naturale, ma senza particolari entusiasmi. Così in molti sospettano che possa essere il caso di inserire titoli delle rinnovabili in portafoglio, se accennassero a qualche cedimento, più che i classici grandi nomi del comparto petrolifero, minerario e dell'energia.
Anzi, i titoli dei produttori di carbone come Peabody Energy o Cloud Peak Energy hanno perso terreno e due grandi produttori petroliferi come Exxon Mobil e ConocoPhilips hanno ribadito, dopo l'annuncio di Trump, il loro sostegno all'accordo per ridurre le emissioni di gas serra responsabili del riscaldamento globale. Un accordo che, non si sa su quali considerazioni scientifiche, Trump ha dichiarato essere "una bufala". Sugli effetti concreti della mossa di "the Donald" sono scettici anche gli analisti: gli uomini di Citigroup ad esempio hanno sottolineato come la decisione possa essere "simbolicamente importante" ma "numericamente potrebbe non esserlo più di tanto".
Nel momento in cui il presidente Usa, che in campagna elettorale aveva più volte detto di voler sostenere il settore petrolifero a stelle e strisce, ha lanciato il suo annuncio, infatti, la notizia dell'ulteriore aumento del numero di trivelle aperte ha fatto scivolare ulteriormente il prezzo del greggio, col future sul Wti texano ormai sotto i 47,5 dollari al barile e quello sul Brent del Mare del Nord scivolato sotto la soglia psicologica dei 50 dollari al barile.
Del resto, notano alcuni gestori, quando una società deve decidere se sostenere i costi per aprire una nuova miniera di carbone, avviare un giacimento petrolifero o costruire una centrale a carbone o a olio combustibile, viste le cifre e i tempi di sviluppo richiesti deve fare calcoli sull'arco dei decenni, per cui una presidenza Trump "pro" fonti fossili rischia di essere semplicemente un contrattempo rispetto ad un trend secolare chiaramente a favore delle fonti energetiche rinnovabili, non fosse altro per il fatto che le fonti fossili sono comunque destinate a esaurirsi nell'arco di alcuni decenni se si continuerà a sfruttarle ai ritmi attuali.
Sul fronte opposto Tesla (che produce auto elettriche) ha guadagnato terreno (+1,8% nella seduta del 31 maggio in cui è arrivato l'annuncio), influenzata beneficamente dalla ripresa del mercato dell'auto americano in maggio, anche se meno di Ford, General Motors o Fiat Chrysler Automobiles, le quali peraltro si son ben guardate dall'annunciare ridimensionamenti degli investimenti a favore dello sviluppo di auto ibride ed elettriche. Qualcuno tra i produttori di energia solare come First Solar ha effettivamente visto le quotazioni perdere terreno, ma il danno è per il momento contenuto (-3%) e peraltro un altro nome del settore delle rinnovabili, Renewable Energy Group, ha addirittura guadagnato terreno (+3,6%).
Reazioni analoghe hanno avuto anche i titoli petroliferi in Italia: Eni, nel frattempo invitata insieme ad altre 28 grandi compagnie mondiali a partecipare all'asta per le concessioni del maxigiacimento iraniano di Azadegan (riserve stimate pari a 33,2 miliardi di barili), continua a oscillare poco sopra i 14 euro per azione, avendo ceduto nell'ultima settimana più del 5% pur mantenendosi di circa il 3% sopra i livelli di 12 mesi or sono, Tenaris ha avuto un andamento analogo (-6% in settimana, ancora +13% circa rispetto a 12 mesi fa), Saipem, che avrebbe solo che da guadagnare da una nuova "corsa all'oro nero", ha fatto persino peggio (-8% in settimana, -2% circa rispetto a 12 mesi fa).
Tra i produttori di energia rinnovabile tricolori, un colosso come Enel (che lo scorso anno ha re-inglobato Enel Green Power) ha guadagnato terreno (+1,6%), mentre la più piccola Falck Renewables ha addirittura segnato un +5,7%, segno che nessuno pensa che la decisione di Trump rivoluzionerà le prospettive a medio-lungo termine del settore. Del resto, l'andamento dei prezzi del petrolio e del gas naturale dipende maggiormente da fattori quali la crescita economica (e quindi l'andamento della domanda globale di energia), il clima, il numero di impianti di estrazione aperti o l'andamento delle scorte e più i prezzi di petrolio e gas salgono, maggiore torna ad essere la convenienza anche delle fonti energetiche alternative (al momento ancora meno efficienti di quelle fossili).
Insomma: quella provocata da Trump sembra poter essere la classica "tempesta in un bicchiere", magari da sfruttare per inserire in portafoglio qualche buon nome del settore delle rinnovabili, più che qualche petrolifero o titolo minerario. Per costoro resta determinante l'andamento della crescita mondiale, riguardo alla quale proprio in settimana gli esperti di Pimco (il più grande gestore di fondi obbligazionari al mondo) hanno messo in guardia, consigliando prudenza.
Secondo gli esperti americani, infatti, dopo sette anni di crescita è sempre più probabile che l'anno prossimo gli Usa inizino ad entrare in una nuova fase recessiva, che potrebbe poi espandersi all'Europa tra un paio d'anni (sempre che i paesi emergenti, che ormai costituiscono i mercati di sbocco di una fetta consistente delle esportazioni europee, non rallentino a loro volta anticipando una nuova recessione anche in Europa).
Semmai la buona notizia per i titoli petroliferi ed energetici è che rispetto a precedenti fasi di rallentamento della domanda non si segnalano particolari esposizioni debitorie né impegni in mega-progetti dagli incerti ritorni. Sarà quindi possibile approfittare nei mesi e negli anni a venire di qualche calo delle quotazioni per inserire anche questi titoli in portafoglio, ma verosimilmente non ora, salvo non ci si voglia concentrare in un'attività di trading su base quasi giornaliera.