Esteri
Myanmar, dopo la fine della "fiaba" di Aung San Suu Kyi ci sono le elezioni
Il paese del Sud-est asiatico al voto. Ma il clima è cambiato molto dalla tornata del 2015. Un libro di That Myint-U aiuta a capire perché
C'era una volta una spietata dittatura militare che diventava una splendida democrazia, portando tante nuove opportunità commerciali. La fiaba del Myanmar, che il mondo amava raccontare a se stesso, non esiste più. E non è mai esistita. Appare chiaro anche a chi ora propone un'ulteriore visione nella quale gli eroi diventano criminali, in un superficiale racconto da buoni e cattivi, classica distorsione che l'occidente commette quando vuole giudicare l'Asia orientale utilizzando solo i propri schemi interpretativi.
Domenica 8 novembre sono in programma le elezioni generali birmane. Si tratta della seconda tornata elettorale dopo la modifica della costituzione che ha messo fine al regime militare aprendo a un sistema ibrido di condivisione di potere tra esercito e istituzioni civili. Sono trascorsi esattamente cinque anni dalla prima volta. Ma le similitudini con le elezioni generali del 2015 si fermano alla data, che era proprio la stessa, 8 novembre. Per il resto, soprattutto dal punto di vista del clima internazionale intorno a Myanmar, è cambiato tutto.
Per lungo tempo Stati Uniti ed Europa hanno guardato alla Birmania, poi Myanmar per ordine "nazionalista" dei generali, cercando di scorgerne la propria immagine riflessa. Da un intricato groviglio di fatti storici, tensioni etniche e rivendicazioni settoriali, hanno intravisto nella figura di Aung San Suu Kyi i contorni di quello che cercavano. Una figura quasi "messianica", come la definisce Thant Myint-U nel suo ultimo, splendido, libro "L'altra storia della Birmania - Una distopia del XXI secolo", appena pubblicato da add editore, del quale proponiamo un breve estratto nel box in fondo a questo articolo.
Eppure, le sanzioni economiche e l'isolamento deciso da Washington (e non solo) durante tutti gli anni Novanta e inizio duemila non hanno per niente aiutato i birmani, né spinto i generali a operare scelte più liberali. Anzi, come il colonialismo britannico di fine Ottocento, hanno finito per acuire le tensioni etniche in un paese profondamente frammentato. E l'innalzamento sul piedistallo di Aung San Suu Kyi ha simbolicamente ridotto le rivendicazioni dei birmani che volevano (e vogliono) condizioni migliori a una battaglia personale.
Una narrazione romanzata ma con effetti concreti, come ricorda Thant Myint-U nel suo libro. A partire dal boicottaggio della convenzione nazionale per la nuova costituzione da parte della National League for Democracy nel 1995. Per proseguire con lo spazio libero lasciato alla Cina, che trasforma il Myanmar in una fucina della propria rivoluzione industriale in seguito alle politiche di mercato lanciate da Deng Xiaoping all'indomani di Tian'anmen.
La fiaba sembrava poter arrivare al lieto fine, con la liberazione di Aung San Suu Kyi pochi giorni dopo le elezioni del 2010 e l'avvio di una transizione verso un sistema democratico. Nel 2012 arriva Barack Obama a Rangoon e gli analisti prevedono il quadruplicamento del pil entro il 2030. Le elezioni del 2015 certificano il trionfo della Nld, che conquista il 57% dei voti e il 58% dei seggi in parlamento. Lo Union Solidarity and Development Party (Usdp), emanazione dell'ex giunta militare, si ferma al 28%.
Aung San Suu Kyi non può diventare presidente, perché la costituzione del 2008 prevede che chi ha familiari diretti stranieri (lei ha figli britannici) non può diventare capo dello Stato. Il parlamento, con l'opposizione dell'Usdp, crea la figura di consigliere di stato. Di fatto è lei che decide il nome del nuovo presidente, Wu Myint, e che governa con deleghe su affari esteri ed energia.
La fiaba sembra reggere, fino all'esplosione delle violenze nell'Arakan e le accuse di genocidio della minoranza musulmana dei rohingya. Aung San Suu Kyi difende l'esercito e finisce nel mirino di quel mondo occidentale che l'aveva osannata per il suo mancato intervento. Ed ecco allora che si inizia a notare che il governo post elezioni del 2015 è il più vecchio di sempre ed è composto interamente da uomini, a parte lei. Si sottolinea la gestione personalistica del partito, dove solo i fedelissimi hanno accesso a ruoli di rilievo. Ed ecco che si parla del suo "patto" con l'esercito, che garantisce la revisione costituzionale per farla diventare presidente in cambio del supporto alla messa in sicurezza dei vari conflitti interni che da decenni tormentano Naypyidaw.
La descrizione della violenza (immane e indiscriminata) contro i rohingya che causa migliaia di morti e centinaia di migliaia di profughi (che cercano riparo nel più grande campo profughi di Kutapalong in Bangladesh, il più grande del mondo) solo nel 2017, non tiene conto di alcuni aspetti, come gli attentati di quei mesi nell'Arakan e il ruolo dei buddhisti arakanesi, anch'essi in conflitto non solo con la minoranza musulmana ma anche con il governo centrale. "Il conflitto del 2018 non era solo tra musulmani e buddhisti, né tra stato birmano e rohingya", scrive nel suo libro Thant Myint-U.
Il Myanmar, comunque, torna nella squadra dei "cattivi". E si torna a parlare di sanzioni. Contingenza sfruttata dai due giganti asiatici, Cina e India. Xi Jinping e Aung San Suu Kyi hanno d'altronde un rapporto profondo, basato sulla comune discendenza da padri rivoluzionari. Tanto che parlano apertamente di legame di sangue tra cinesi e birmani. Oltre ai colossali progetti infrastrutturali ed energetici che possono consentire a Pechino di arrivare all'oceano Indiano aggirando il vecchio "dilemma di Malacca". Allo stesso modo, Narendra Modi non ha mai puntato il dito su Myanmar per la questione dei rohingya e cerca di aumentare la sua sfera di influenza sul paese limitrofo, per esempio dal punto di vista difensivo, come dimostra il recente invio di un sottomarino.
Un Myanmar ancora frammentato e incerto sul suo futuro arriva così alle urne per le elezioni del 2020. Un voto che dovrebbe confermare il governo di Aung San Suu Kyi. Ma la maggioranza potrebbe essere ridotta, anche per la disillusione nei suoi confronti da parte delle minoranze etniche, a partire dall'Arakan passando per il Kachin dove i vecchi conflitti proseguono. Al voto partecipano oltre 90 partiti e in ogni caso la principale forza di opposizione resterà l'Usdp, con la costituzione che riserva ancora il 25 per cento dei seggi parlamentari all'esercito. Una rappresentanza che consente di bloccare le riforme della legge fondamentale. Tra i rivali di Aung San Suu Kyi c'è anche il PPP di Thet Thet Khine, espulsa dalla Nld per le sue critiche alla leader.
Per capire le radici storiche e culturali delle tensioni etniche interne al Myanmar, così come le sue dinamiche politiche e ruolo geopolitico, il libro di Thant Myint-U è un contributo fondamentale. Qui sotto, per gentile concessione di add editore, ne pubblichiamo un breve estratto dall'introduzione.
All’inizio dello scorso decennio la Birmania era sulla cresta dell’onda. Mano a mano che i generali sembravano rinunciare al potere, tutti, almeno in Occidente, avevano cominciato a credere che il Paese fosse nel pieno di una trasformazione sbalorditiva, dalla più terribile delle dittature a una democrazia pacifica e fiorente. Barack Obama, Bill e Hillary Clinton, Tony Blair e decine di altri leader mondiali, passati e presenti, arrivavano in rapida successione per partecipare al solenne cambiamento. Si revocavano gli embarghi commerciali e si promettevano miliardi di dollari di aiuti per recuperare il tempo perduto. Con George Soros in testa, i principali top manager del mondo affollavano con i loro jet privati il piccolo aeroporto di Rangoon, desiderosi di investire nel nuovo mercato di frontiera dell’Asia. Fino al 2016 si erano uniti alla mischia Angelina Jolie, Jackie Chan ealtre star, mentre il turismo esplodeva e sembrava giunta l’ora che il premio Nobel Aung San Suu Kyi, da poco libera dopo anni di arresti domiciliari, governasse finalmente il Paese.
Ma nel 2018 lo stato d’animo sarebbe diventato fatalmente tetro. Una nuova unità combattente, l’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), aveva attaccato decine di posti di blocco nell’estremo ovest del Paese, e ne era seguita una violenta risposta da parte dell’esercito birmano. In seguito agli scontri, diverse centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, quasi tutti appartenenti alla minoranza musulmana dei rohingya, scappavano nel vicino Bangladesh, raccontando storie orribili di stupri e massacri. La Birmania si trovava adesso sul banco degli imputati, accusata di genocidio e crimini contro l’umanità.
Nel settembre 2018 il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si riuniva a New York per discutere possibili misure e ascoltare un appassionato discorso dell’attrice Cate Blanchett, che aveva visitato gli immensi campi profughi dei rohingya ed era la prima star del cinema a parlare di fronte al più importante organo di sicurezza del mondo. Ad appena due anni dalla revoca delle ultime misure punitive, Stati Uniti ed Europa imponevano nuove sanzioni, e la stessa Aung San Suu Kyi, accusata di non fare abbastanza a favore dei rohingya, finiva nel mirino delle critiche di quelli che un tempo erano stati fedeli alleati nella comunità dei diritti umani. I vecchi amici – Bob Geldof, il Dalai Lama, l’arcivescovo Desmond Tutu – si dicevano delusi per la sua inerzia, e il college che aveva frequentato, il St. Hugh di Oxford, toglieva il suo ritratto dalla galleria degli allievi illustri per riporlo in un magazzino. Non volendo arrivare a tanto, il Canadian Museum for Human Rights teneva il ritratto nella «Galleria dei Canadesi Onorari» ma si premurava di abbassare l’illuminazione.
Arrivavano altre brutte notizie. I colloqui di pace che sin dal 2012 erano stati il cavallo di battaglia del lodevole processo di riforme birmano si erano quasi arenati, mentre divampavano nuovi combattimenti sulle montagne settentrionali. L’economia, che nel 2014 aveva avuto la crescita più alta del mondo, doveva fare i conti con preoccupanti venti contrari. Gli investimenti colavano a picco, diminuiva drasticamente la fiducia dei consumatori e aumentavano i timori di una crisi bancaria. Nel 2016 le guide Fodor’s indicavano la Birmania come una delle destinazioni più attraenti del mondo. Nel 2018 il Paese finiva nella top ten dei posti da evitare.
Che cos’era successo? Per decenni la storia del Paese era apparsa come una lotta manichea fra i generali al potere e un movimento a favore dei diritti umani e della democrazia liberale.Ma era diventato molto difficile far combaciare questa vecchia storia con i recenti sviluppi. Possibile che il mondo avesse completamente frainteso la Birmania?