Esteri

Dalla Lituania 1991 all'Ucraina 2014

Ivan Brentari

Tutta la verità sulle 'rivoluzioni colorate'

Ho letto La congiura lituana di Galina Sapožnikova (Sandro Teti Editore). Tratta dei fatti avvenuti sotto la torre della televisione di Vilnius la notte tra il 13 e il 14 gennaio 1991. Visto che forse a distanza di più di vent’anni non tutti ricordano, cerco di riassumere per sommi capi: l’Unione Sovietica è ai suoi ultimi respiri; gli indipendentisti lituani legati Vytautas Landsbergis, leader di Sajudis, il movimento nazionalista, occupano la torre della televisione; una folla si raduna attorno all’edificio ed erige barricate; i sovietici inviano la squadra speciale Alfa; arrivano gli autocarri, la squadra Alfa riesce a riprendere il controllo della torre, ma qualcuno spara e sul terreno restano i cadaveri di 14 manifestanti. Per i nazionalisti sono state le truppe sovietiche. È la goccia che fa traboccare il vaso e manda definitivamente in orbita la rivolta antisovietica. Pochi mesi dopo la Lituania sarà indipendente. Ancora 13 anni ed entrerà nella NATO.

   Gli eventi del gennaio 1991 e il sangue di cui sono intrisi rappresentano il mito fondativo della nuova Lituania. Per la Sapožnikova la versione ufficiale dei fatti è falsa. A sparare sarebbero stati dei cecchini non identificati, appostati sui tetti dei palazzi vicini. Alcuni testimoni avrebbero visto le scie luminose dei proiettili traccianti. Le 14 vittime riportano ferite riconducibili a pallottole da caccia e non ai calibro 5.45 dei kalashnikov in dotazione ai sovietici. Il tramite dei proiettili nei corpi indica una traiettoria dall’alto verso il basso.

   Flash, connessioni. Landsbergis che dalla televisione incita i cittadini di Vilnius ad ammassarsi attorno al ripetitore, prima degli spari. Landsbergis che ha pronto un aereo coi motori accesi, nel caso in cui le cose si mettano male. Gene Sharp, il teorico delle “rivoluzioni colorate”, che ha contatti con elementi lituani, e lo ammette in un’intervista alla Sapožnikova. Gene Sharp che arriva in Lituania, qualche settimana dopo i fatti di Vilnius. Audrius Butkevicius, futuro ministro della Difesa lituano, che, nella primavera del 2000, dichiara alla rivista Obzor di aver lavorato a lungo presso l’Albert Einstein Institute, fondato da Gene Sharp.

   La storia dei cecchini mi ha ricordato gli eventi analoghi del 2014 in Ucraina. Anche lì anonimi cecchini spararono sui manifestanti. Furono subito additati i Berkut, il reparto speciale della polizia di Yanukovich, allora presidente ucraino, ma tempo dopo, in un’intercettazione diffusa verosimilmente dal FSB russo, il ministro degli esteri estone, Paet, dichiarava all’allora responsabile esteri dell’Unione Europea, Ashton, che i tiratori erano probabilmente appartenenti allo schieramento dei ribelli di Maidan che volevano esasperare la situazione e screditare il governo ucraino.

   È indubitabile che le teorie di Sharp abbiano ispirato molte “rivoluzioni” cui abbiamo assistito negli ultimi 30 anni, e in particolare negli ultimi 10/15. Rivoluzione Arancione – poi di Maidan – in Ucraina, Rivoluzione delle Rose (Georgia), Rivoluzione dei Tulipani (Kirghizistan). Dietro a questi eventi, mi sembra,  spesso c’è una logica complessa ma anche semplice, che rimanda direttamente a metodi aziendali. Al concetto di brand. La Rivoluzione Arancione è arancione così come il colore della Coca Cola è rosso. Il fulcro di tutto è il prodotto e la maniera in cui viene pubblicizzato. Riconoscibilità, riproducibilità, esportazione.

   Queste rivoluzioni, sulla carta non violente, hanno talvolta avuto bisogno di una spintarella. “Istruttori” militari (di fatto truppe scelte armate), flussi di dollari, ONG mascherate. E poi le contromosse: contro-flussi di rubli, contro-“istruttori”, hacker.

   Il fatto è che viviamo anni estremamente interessanti. Questa è l’onda lunga del Novecento, o forse è soltanto un altro Novecento. Sono anni letterari, anni da spie. Il colore di questo tempo è il nero. Il genere letterario di questo tempo è il noir. Non sono gli anni giusti per schierarsi sulla base della morale e fare il tifo per una parte. Finiremo tutti nel fango. Perché i “buoni” che ci scegliamo – ciascuno i suoi – si affrontano nel fango, vivono nel fango, e muoiono nel fango.

   Quando penso a queste storie sporche mi viene sempre in mente il Pete Bondurant di Ellroy, protagonista di American tabloid e The cold six thousand. L’anticomunista feroce che collabora con la CIA, l’americano (canadese in realtà) che addestra dissidenti cubani per preparare la Baia dei Porci, che crede nella Causa, che raffina eroina in Vietnam per venderla a Las Vegas e finanziare la reconquista di Cuba, la sua ossessione.

   I vari scenari di crisi pullulano di Pete Bondurant in carne ed ossa.

   James Le Mesurier è un cittadino britannico e un ex-militare dell’esercito inglese. Ed è un personaggio essenzialmente letterario. Per 20 anni è stato membro delle unità di crisi delle Nazioni Unite, consulente per agenzie private di intelligence, consulente per il Ministero degli Esteri della Gran Bretagna. La sua biografia riporta esperienze in «attività di stabilizzazione» e «democratizzazione». Quando nel 2011 la Siria comincia a ribollire, James Le Mesurier è presente nell’area, non si capisce bene in quale veste. È qui che lancia il Batal Program. All’inizio del 2013 seleziona una ventina di elementi, siriani, se li porta in Turchia e li addestra, ufficialmente per far di loro dei soccorritori provetti. Dopo la formazione, questa prima squadra torna in Siria per operare. I mesi passano, le squadre si incrementano, serve un ente che le gestisca, e nel 2014 Le Mesurier si inventa la Mayday Rescue, una ONG che si occupa di peacebuilding (il motto è: «salviamo vite e rafforziamo comunità»). La Mayday Rescue non accetta volontari nelle proprie fila: i suoi membri sono tutti pagati. L’associazione è apertamente finanziata dai governi statunitense, giapponese, danese, tedesco, inglese, francese e olandese. Creatura della Mayday Rescue è la Syrian Civil Defence, che partorirà a sua volta il Movimento dei Caschi Bianchi, un corpo di soccorritori addestrati. I Caschi Bianchi, in una manciata di mesi, passano da poche decine a circa 3000. Si moltiplicano i campi di addestramento.

   Recentemente sono saliti all’onore delle cronache durante i bombardamenti di Aleppo, città a nord della Siria. I telegiornali di tutto il mondo parlano di loro e di quello che fanno per la popolazione civile. Nel settembre 2016 Netflix produce un documentario su di loro. Le Mesurier, che di loro è il padre, la sua invenzione l’ha pensata bene. I Caschi, come le rivoluzioni, hanno un colore: il bianco. Hanno un brand, un simbolo distinguibile. Hanno un account Twitter che conta 52.000 seguaci. Hanno un sito internet ben curato, in cui si può trovare una citazione di Martin Luther King, un tasto per il crowdfunding e delle fotografie professionali, di quelle a diaframma aperto di modo che lo sfondo venga sfocato. Quando cadono le bombe, i volontari non partono all’azione da soli. Degli addetti li seguono con le videocamere e le macchine fotografiche per riprendere e fotografare le operazioni di soccorso. Sui caschi comunque, per non sbagliarsi, sono montate le GoPro, telecamere digitali usate per fare video negli sport estremi. Questi filmati, sui quali spicca in bella vista il simbolo dell’elmetto bianco in campo giallo e blu, finiscono in rete e alle agenzie di stampa, che li girano immediatamente ai canali televisivi, che a loro volta li trasmettono.

   I Caschi Bianchi siriani, fondati da un militare britannico, piacciono a tutti perché sono «unarmed and neutral», disarmati e neutrali. Le Mesurier spinge per candidarli al Nobel per la Pace. Viene creato un altro, apposito, sito internet. Di fatto è un’autocandidatura. Che però viene sottoscritta da George Clooney, Susan Sarandon, Justin Timberlake, Chris Martin, i registi Ridley Scott, Alfonso Cuaròn, Alejandro Iñàrritu,  e poi Edward Norton, Vanessa Redgrave e molti altri ancora, tra attori, politici, musicisti, associazioni (la prima è chiaramente la Mayday Rescue).

   A dire il vero, però, non proprio tutti amano i Caschi Bianchi. Qualcuno dice che foto e video dei soccorsi siano stati fatti ad arte, che i bambini “feriti” e portati in salvo siano stati acconciati da un truccatore in loco. Che in rete girino foto di volontari dei Caschi che impugnano dei mitra. O filmati di volontari dei Caschi che fraternizzano con membri di Al-Nusra, gli integralisti islamici anti-Assad guardati dagli USA con un certo favore, benché appartenenti ad Al-Quaida fino al luglio scorso. Che i Caschi siano la punta di diamante di una campagna propagandistica che vuole minare l’immagine, non proprio florida già di suo a dire il vero, di Assad per giustificarne la futura defenestrazione. I documenti sono disponibili in rete e ognuno può valutarli per i fatti suoi.

   Personalmente non so dove stia la verità, ma penso addirittura che la verità non conti più, o meglio non sia più il fatto centrale. Nella politica estera è normale che esista una certa dose di segretezza. Le operazioni sotto copertura sono sempre esistite e ogni epoca ha avuto i suoi Pete Bondurant. Questo però non significa che tutte le epoche siano uguali. Sembra una tautologia, ma la segretezza è tale solo se è segreta. Negli anni recenti l’affermazione definitiva di internet – perlomeno in Occidente – e organizzazioni come Wikileaks hanno fatto saltare completamente gli schemi. Gli strumenti dei media non sono più quelli di trent’anni fa, quelli, per intenderci, del gennaio 1991 e dei fatti di Vilnius. Sono più numerosi, più perfetti e al contempo più malleabili. Le informazioni sono aumentate in progressione geometrica ma, proporzionalmente, la loro credibilità è crollata. Questo provoca fenomeni inquietanti di iperinformazione, iperdisinformazione, depistaggi. Una crociera turistica tra blog politici e di intelligence  - alcuni validi, altri no – rivela al lettore spesso una sindrome da complottismo di massa che va dalla massoneria alle demogiudoplutocrazie, fino alle scie chimiche. Uno stato di paranoia diffusa che, come noto, non aiuta la riflessione.

   In tale contesto, credo, la letteratura, forse anche più del giornalismo, deve avere un compito preciso, una funzione sociale, quasi una via obbligata da percorrere. Gli anni sono neri e per leggerli serve la letteratura nera, perché, quella sì, aiuta la riflessione.