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Calcio, geopolitica e soft power: da squadra a brand, da tifoso a consumatore

di Sara Perinetto

Come e perché i paesi e le potenze usano il calcio per i loro interessi geopolitici globali: intervista agli autori

Il calcio non è solo uno sport, ma un grande business che domina il mondo, un vero e proprio strumento di soft power che gli stati mettono al servizio della geopolitica. Alessio Postiglione, Narcís Pallarès-Domènech e Valerio Mancini ne parlano a fondo nel loro libro Calcio e geopolitica, pubblicato da Edizioni Mondo Nuovo.

Un saggio giornalistico dal taglio discorsivo che però “offre una maggiore profondità di chiavi di lettura” raccontano gli autori, intervistati da Affaritaliani.it “perché il calcio viene analizzato secondo il famoso paradigma di Durkheim del fatto sociale totale, che spiega come alcuni fenomeni siano indagabili attraverso differenti categorie, dall’economia all’antropologia alla sociologia… Apparentemente passatempo di personaggi che amano sbevazzare al pub, è in realtà un rito sociale. Ecco perché riguarda anche il processo di nation building o state building: gli stati hanno usato il calcio per quel processo con cui si è creata l’identità nazionale degli stati moderni dal 1800, ecco perché anche nazioni senza stato come la Padania, l’Ossezia, l Darfur, il Nagorno Karabakh investono molto nel calcio”.

E infatti, spiegate nel libro, la Fifa ha più stati membri (211) delle Nazioni Unite. Raccontateci meglio il parallelo tra le due organizzazioni.

Nel consiglio di sicurezza Onu ci sono i paesi vincitori della Seconda guerra mondiale che hanno potere di veto e quindi esercitano una pressione su scala globale. Ugualmente nella Fifa c’è una sorta di élite che blocca il procedimento democratico dal basso. I paesi geopoliticamente più importanti esercitano un monopolio. Gli Stati Uniti per esempio non sono calcisticamente rilevanti ma da anni usano il calcio per proiettare il proprio soft power a livello globale, non solo attraverso il brand principale, cioè gli Usa, ma anche con brand collaterali come l’isola di Guam, le Marshall, le Vergini, Porto Rico, confederazioni calcistiche autonome ma che fanno parte del grande impero coloniale degli Stati Uniti, che diventano così il paese che ha più voti a livello di Fifa, perché, come diceva Andreotti, i voti non si contano ma si pesano.

foto Valerio Mancini 2Valerio Mancini
 

Anche in questo caso non si può parlare di Stati Uniti senza parlare anche di Cina, e infatti nel libro le dedicate molto spazio. Credete che anche a livello calcistico, come già geopolitico, gli equilibri in futuro si sposteranno verso l’Asia e il Dragone?

Non si può escludere. A livello geopolitico, Cina e Stati Uniti sono due avversari sistemici assoluti che, secondo la famosa trappola di Tucidide, sono destinati a farsi la guerra guerreggiata, ma nell’attesa, magari sperando che non succeda mai, ecco che il calcio, che parafrasando von Clausewitz è la continuazione della politica con altri mezzi, diventa il campo di gioco in cui queste due potenze si affrontano. E usano strategie simili. Per entrambe il calcio non è lo sport nazionale ma hanno iniziato a investire molto in questo settore, anche passando dalla porta laterale della calcio femminile. La nazionale cinese femminile è morto forte e quella Usa è la più forte al mondo. La Cina ha un piano, vidimato da Xi Jinping, che prevede di costruire un numero monstre di 1 stadio ogni 10mila abitanti e, entro il 2050, di organizzare e vincere un mondiale. Intanto, il mercato di trasferimento dei giocatori ha raggiunto l’apice proprio in Cina, con il caso di Hulk, il calciatore più costoso al mondo. Nel giro di 10 anni il campionato cinese avrà un valore complessivo superiore alle 5 leghe big (inglese, tedesca, spagnola, italiana e francese). Mentre squadre europee con proprietari o investitori cinesi, come Real Madrid e Milan, hanno più tifosi oggi in Cina che a Madrid o Milano, sono diventate dei brand globali.

E gli Stati Uniti?

Gli Stati Uniti non stanno a guardare: per esempio hanno interrotto il ciclo delle potenze in ascesa che ha visto assegnare i mondiali a paesi in via di sviluppo, come Brasile o Sudafrica, che avrebbero dovuto superare i paesi dell’Occidente. Hanno sbaragliato la concorrenza del Marocco aggiudicandosi i mondiali 2026, un vero e proprio mondiale Nafta, cioè di Stati Uniti, Messico e Canada.

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Rifacendoci al libro, possiamo dire che il calcio nasce come fenomeno di massa popolare a inizio Novecento, per diventare poi strumento di regime, tornare spazio politico nel dopoguerra e oggi è uno strumento economico. Diteci qualcosa di più su questa trasformazione.

Il calcio sta passando dall’essere un rito collettivo a spettacolo individuale. Un rito che le persone facevano insieme nello stadio attraverso una serie di simboli e storytelling, come le sciarpe, le bandiere, i colori della squadra, un calcio sentimentale insomma, diventa oggi un calcio razionale di consumo mercatistico individuale. Il calcio non più fruito insieme da maschi ubriachi che fanno cori goliardici allo stadio o al pub, ma da un consumatore elegante e per bene che frequenta stadi che non sono più tempio della fede calcistica ma centri commerciali, oppure si gode lo spettacolo davanti alla tv, ancora più in solitaria.

Nel libro scrivete in modo chiaro che se molti piccoli club falliscono, i grandi club di ciascun paese potrebbero trarne vantaggio per formare un campionato elitario: come si inquadra in questo panorama la Superlega?

La Superlega è nello spirito dei tempi perché ci sono fenomeni di concentrazione capitalistica e cartelli economici che spingono verso la creazione di leghe di superbrand. Non c’è più spazio per Cagliari o Verona campioni d’Italia, i grandi investimenti globali si concentrano su poche squadre tifate da un pubblico globale. Questo fenomeno di mercatizzazione del calcio non è unilaterale e indolore ma conflittuale, tra élite economiche, che spingono in direzione della tecnocrazia del calcio, e la base, i tifosi, che invece chiede più partecipazione. La Superlega è nelle corde di un nuovo meccanismo economico che cerca di estrarre sempre più profitti dal calcio, per cui il Real Madrid è interessato a giocare col Manchester United, non col Villarreal. L’Atalanta che arriva in Champions è una bellissima eccezione, ma il futuro non è interessato all’Atalanta perché i tifosi di Bergamo non sono una massa critica dal punto di vista economico. Questo processo si può interrompere se, come nel caso Superlega, tradisce in modo palese una postura antidemocratica: le squadre coinvolte sono squadre indebitate che volevano blindare i loro investimenti dall’incertezza dei campionati nazionali, ma l‘hanno fatto con l’atteggiamento tipico della casta, a cui, la storia ci insegna, la gente risponde “vaffa”, e infatti i tifosi si sono ribellati. Per avere futuro dovrà trovare un bilanciamento maggiore verso la democrazia, mentre questo esperimento è fallito perché è stato un tentativo liberista mercatista di accentrare la produzione e blindare gli investimenti in spregio alla democrazia e al merito.

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E nel mondo post-Covid, cosa cambierà?

La pandemia ha favorito delle enormi trasformazioni sociali: il piccolo commercio al dettaglio e le sale cinematografiche hanno sofferto ma Amazon e Netflix hanno festeggiato. Questa dinamica riguarda anche il calcio. Le squadre-brand non sono più interessate ad avere una tifoseria proletaria, locale, magari chiassosa come il tipico ultrà da stadio o da pub, ma vogliono un consumatore globale borghese, educato, che va a vedere la partita con la famiglia. Ecco perché In Italia, per esempio, i presidenti di serie A vorrebbero trasformare San Siro in uno stadio-centro commerciale. È uno scontro a livello globale fra capitalismi diversi: ci sono squadre che rappresentano i grandi fondi della finanza, Milan e Inter sono entrati non nel solco del capitalismo atlantico ma del capitalismo di stato cinese, ci sono i fondi emiratini del Manchester United. Il Barcellona è un unicum, un azionariato popolare, una squadra che scalda il cuore, ma è un modello antiquato, come anche la Juventus, che rappresenta il capitalismo famigliare del nord-ovest: l’Italia ha raggiunto il suo apice quando il calcio era trainato dai Moratti, Ferlaino, Agnelli, ma oggi l’economia non va in questa direzione ma in quella di grandi fondi internazionali, e Milan e Inter da questo punto di vista sono attrezzati meglio della Juventus, che ha la stessa proprietà degli anni Settanta quando c’era il patron, ma il patron ormai ha fatto il suo tempo.

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