Milano
Expo, la gigantesca supercazzola di cui già non possiamo fare a meno. I Hate Milano
Alla base di Expo c'e' una contraddizione, evidente e definitiva, da cui derivano tutte le altre. La motivazione - nobile, coraggiosa, contemporanea - del cibo e dei problemi legati alla nutrizione, l'esigenza di riflettere su un pianeta dove alcuni accumulano miliardi di euro e altri muoiono di fame e' ridotta a messa in scena dove i loghi delle multinazionali sono onnipresenti. Neppure a Disneyland si e' sottoposti a un simile bombardamento di marche e pubblicita': Coca-Cola, Mc Donalds, Algida, Ferrero, Lindt, Kinder, Cir, Canon, giu' fino a Rossopomodoro. Ovunque e' brand, gadget, sponsorizzazione: era questo che si pensava quando si organizzava l'Expo delle idee? I ragazzi con il palloncino dell'Happy Meal: e' questa l'immagine coordinata dell'Esposizione Universale? Quando non si vede un contadino ma abbondano gli esperti in marketing, quando tutto e' incelofanato, plastificato, "brandizzato" - per usare una parola orribile - non si tratta di essere "No Expo", ma solo "Sì Cervello", ed e' dunque lecito chiedersi se le attese di quello che doveva essere un evento dedicato a chi ha di meno non siano state clamorosamente disattese. La nuda cronaca di I Hate Milano (con fratello) a Expo.
La prima cosa che colpisce di Expo e' l'efficienza di Atm. Arriviamo in banchina, in periferia, e il treno per Rho sta partendo in quell'istante. Neppure il tempo di imprecare che 90 secondi dopo ne arriva un altro. Provate ad andare a Brooklyn a perdere un treno all'ultimo istante per Manhattan: se vi va bene di minuti per il successivo ne aspettate 30. Una specie di "Miracolo a Milano", calcolando anche lo stipendio medio dei lavoratori, cui i milanesi neppure fanno caso. Arrivati a Expo, il primo shock e' il prezzo. 39 euro per entrare sono pura follia. Lo sconto di 6 euro (sei) per gli studenti, una beffa dopo il danno, e lo stesso dicasi per i cosiddetti sconti famiglia: la verità' e' una famiglia di quattro persone spende un gamba abbondante per entrare. E il fatto che ci siano decine di gabole per pagare assai meno - tramite Esselunga, tramite il Pd, tramite l'associazione eccetera - fa solo incazzare, perche' in questo modo a essere penalizzato e' il turista occasionale, a cui e' richiesto, pronti via, un prelievo di sangue.
Tanto valeva aumentare il prezzo del ridotto e diminuire quello dello standand, ma in Italia, si sa, la logica e il profitto cedono sempre il passo alla cultura dell'amico dell'amico. Il colpo d'occhio cerca, disperatamente, di lenire il dolore per l'esborso, come una vasellina postuma: e bisogna dire che se anche ci fossero dei padiglioni ancora da ultimare, il sito appare talmente sterminato che bisogna essere o in malafede o giornalisti di Santoro per avventurarsi negli angoli remoti a scovare i lavori ancora in corso.
Cerchiamo una cartina: la chiediamo a un volontario, e il signore ci dice che purtroppo gliene e' rimasta solo una in francese, con la copertina blu. A quel punto mio fratello mi fa notare che il signore in mano ne stringe anche un pacco con la copertina fucsia. Gli chiedo cosa sono quelle e lui mi fa "eh niente, queste sono inglese". Gliene chiedo due in inglese, e quello, dopo avermi chiesto se "sono sicuro", me le porge stupefatto. O il signore e' stato ibernato durante il Congresso di Vienna, ed e' ancora convinto dell'universalita' della lingua francofona, o questa resta la scena più' misteriosa della nostra visita. Ci dirigiamo verso i padiglioni, e la prima cosa che vediamo sono due militari in mimetica e pistola nella fondina, occhiali da sole scuri, che parlano fitti fitti, seri seri. Avvicinandoci, li sento dire "guaio', Chiellini e' indemoniato, vedrai che Suarez non tocca palla" "Speriamo Genna', speriamo...". Non mi e' chiaro se i due: 1) siano veri 2) siano un'installazione di un qualche artista concettuale dal titolo "Italianita' iperbolica" 3) siano Maccio Capatonda e il suo socio. Cio' detto, la massiccia presenza di militari, carabinieri, polizia locale, finanzieri, poliziotti, guardie forestali e guardie giurate sara' una costante di tutta la visita, e chissà' come le guide spiegano agli stranieri (ne abbiamo incontrati non più' di una decina, ma si dice arriveranno) l'origine di questa variopinta armata, loro che i soldati li mandano in guerra e nelle strane hanno solo i poliziotti. Iniziamo dal padiglione del Vietnam: un paese meraviglioso rappresentato da un bilocale con quattro vasi e due bonsai. Ok, tentiamo un buona la seconda: padiglione della Cambogia: monolocale con qualche fotografia. Avanti con la terza: padiglione di Cuba. Sogni l'Avana e ti ritrovi nella sala d'aspetto di uno psicologo.
Perche' a Expo funziona come l'Universita' italiana: per i padiglioni non c'e' test di ingresso. Alcuni sono da mille e una notte come quello del Qatar, altri da mille euro scarsi. Raggiungiamo la via principale, e stavolta andiamo sul sicuro. Padiglione della Thailandia. Bello, grosso, scenografico. All'interno ci accoglie un video di un minuto che ci mostra che in Thailandia ci sono tante foreste e un bellissimo mare. L'effetto e' un po' Turisanda, ma pensiamo sia un'anticipazione. Altra sala, e altro video di un minuto in cui vediamo gente che mangia pad thai. Affamati di contenuti entriamo nella terza sala dove parte un video di 4 minuti in cui sono magnificate le gesta di Bhumibol Adulyadej, di professione re di Thailandia, un tipino cui non sta molti simpatica la libertà' di espressione che pero' qui viene presentato come uomo di "illuminante saggezza" che da "60 anni lavora per il suo popolo, anche con la pioggia". Ci manca che parta "Meno male che Bhumobol c'e'" e poi pare di vedere il tg4 di Emilio Fede versione asiatica. Usciamo da li un po' sconcertati e ci buttiamo nel padiglione americano. Ci accoglie un video di Obama clamorosamente invecchiato dai tempi del "Yes, we can" che cerca di parlare del cibo e degli sforzi americani per garantirlo ai più' bisognosi. Cerca, perche' la sua voce e' coperta da Shakira che alla radio del piano di sopra grida "Whenever, wherever". Andiamo di sopra, troviamo un bar dove lo spritz viene venduto come il drink che "make you feel like Florida", e pensiamo a quando Spritz, al massimo, voleva dire Prato della Valle. Il punto e' che in 'sto padiglione americano non c'e' nient'altro. Con sempre più' dubbi volgiamo verso il padiglione della Russia: qui lo sforzo, almeno e' evidente. Tutto laccato, tutto che risplende. Peccato che la degustazione gratuita di vodka sia finita da dieci minuti. Ce ne sarebbe una di porridge, ma non e' la stessa cosa. Proviamo a leggere le numerose didascalie informative alle pareti, ma forse il porridge e' diventato di gran moda negli ultimi anni: al bancone decine di studenti si accalcano, si spintonano per averne un po' e rimanere nella stanza diventa noioso.
Usciamo dal gift shop con matrioske tanto belle quante care e siamo di nuovo sul vialone. Da li in poi, il canovaccio e' lo stesso per ogni padiglione: coda variabile (da zero a un'ora). Video informativo. Didascalie. Video informativo. Oggetto X in esposizione. Video informativo. Gift shop. Questa e', in estrema sintesi, l'esperienza di Expo. Certo, i padiglioni da fuori sono molto belli. Ma finito l'effetto "wow", e' nel padiglione degli Emirati Arabi - dove il mirabolante edificio offre, all'interno, la visione di un cortometraggio diciamo non indimenticabile e il video musicale di un discutibile rap cantato da una bambina araba doppiata da Tea Falco - che abbiamo sentito un commento di uno studente toscano che ci sentiamo di condividere in pieno: "Maiala...ma che stiamo a vede'?" Ecco, "ma che stiamo a vede'?" e' proprio la domanda che sorge spontanea dopo alcune ore passate a visitare i vari padiglioni, dove, a livello generale, si avverte una clamorosa mancanza di idee. Ci sono, certo, delle eccezioni: la realtà' virtuale nel padiglione della Slovacchia (uno dei meno frequentati, tra l'altro), i ventilatori caldi a simulare il vento del deserto in quello del Marocco, il tappeto elastico sospeso che sovrasta quello del Brasile. Ma la sensazione generale di essere in mezzo a una gigantesca, monumentale supercazzola a un certo punto ti assale e non ti molla più. Cosi' si arriva a ora di pranzo, e noi passiamo in rassegna il padiglione più' grosso, quello di Farinettonia, granducato monarchico fondato sul baffo, dove i prezzi, ancora una volta, appaiono spropositati, soprattutto in considerazione del tempo medio di attesa e del fatto che la coda da fare e' doppia, una per il mangiare e una per il bere (chi abbia partorito una simile idea e' senza ombra di dubbio un essere che detesta il genere umano). Anche perche' se la pizza e' quella di Rossopomodoro, con tutto il rispetto, ma allora tanto vale mangiarsela in Colonne di San Lorenzo, invece che perdere tre quarti d'ora per mangiarsela a Expo. Non si poteva fare qualcosa di più' caratteristico? Con che criteri sono stati scelti i vari ristoratori che rappresentano le varie regioni? Ma si sa come vanno le cose a Farinettonia, e quindi noi decidiamo di volgere altrove, e approfittando della poca fila entriamo al padiglione del Qatar. Qui una ragazza tenta, stoicamente, di spiegare ai visitatori il funzionamento del padiglione, davanti a una tavola imbandita di cibo. Appena i visitatori capiscono che si tratta di cibo finto, di plastica, eccoli passare altrove. Sui muri e' scritto ovunque la necessita' di mangiare "healthy", ovvero salutare. Peccato pero' che il padiglione di fianco sia quello di Mc Donalds, e risulti essere uno dei più' visitati: l'effetto e' a meta' tra il comico e il tragico, e rimanda alla considerazione scritta in apertura di articolo.
A questo punto dobbiamo per forza di cose mangiare, e per puro caso ci imbattiamo nel padiglione della Germania. Pagando un terzo di meno che a Farinettonia mangiamo come a un October Fest a Monaco di Baviera, e va benissimo così. Dopo una siesta nel roof garden del padiglione, su delle panchine in legno avvolte nel gelsomino dove si sta da dio, anche se più' che in Baviera pare di stare a Corleone, vorremo visitare il padiglione vero e proprio. Ma ecco arrivare il Gabibbo - si, quello vero - seguito da un'orda di studenti intenti a spararsi selfie a mitraglia. Desistiamo, e andiamo verso il centro nevralgico dell'Esposizione: l'Albero della Vita e Palazzo Italia. Sull'Albero della Vita, hanno già' detto tutto gli altri. Noi ci limitiamo a dire che non capiamo l'indecisione sul suo futuro. La sua collocazione naturale ci pare essere il luna park dell'Idroscalo. Se ci attaccano delle catene con dei sedili, diventa un fantastico e divertentissimo calcinculo. Menzione speciale per i sedili della Coca-Cola che si inclinano ma non si ribaltano: assolutamente da provare, garantiscono un piacevole passatempo per tutte le eta'.
Palazzo Italia invece si può' visitare solo se siete pronti a farvi tre ore di coda. Si, tre ore. Non un minuto di meno. Ci sacrifichiamo, e all'interno veniamo gratificati da una versione deluxe della routine descritta per gli altri padiglioni. Video-didascalia-oggettino-video-didascalia-oggettino per tre piani di malcerto orgoglio patrio. Sono le sei passate, stiamo camminando da 8 ore. Di nuovo sulla via principale facciamo caso al fatto che ci sia ancora una valanga di gente, nonostante si tratti di un giorno feriale. Ad un'occhiata più' attenta pero', si nota come l'80% sia composto da scolaresche, deportate in massa a Expo per dopare il dato degli ingressi verso l'alto. Peccato che il loro atteggiamento sia, in larga parte, quello tipico delle scolaresche in gita. Illuminante la scena in coda a un padiglione: mentre sulla destra scorrono le didascalie sulla necessita' di condividere risorse naturali con chi ha di meno e di limitare l'inquinamento pena la scomparsa dell'umanita', la scolaresca con cui attendiamo e' rapita dalla barzelletta raccontata da un loro compagno, detto "il professore", quella per la quale la donna ideale di ogni uomo sarebbe bassa, con le orecchie a sventola e la testa quadrata. E quando "il professore" svela il motivo (la testa quadrata serve per appoggiarsi la birra) la reazione e' un boato di approvazione, con buona pace del video che scorre alle loro spalle, dove si notano le immagini di un villaggio del Medio Oriente i cui abitanti muoiono di sete. Alle 7 di sera, decidiamo che siamo a posto così'. Ci dirigiamo verso l'uscita e dopo un'altra attesa di 30 secondi sulla banchina della metropolitana, concludiamo la nostra visita a Expo 2015.
Conclusioni: nessuno e' stato al Salone del Mobile, ma tutti sono stati al Fuorisalone. Sarebbe sbagliato, quindi, giudicare Expo basandosi solo sui contenuti esposti all'interno del perimetro della Fiera Espositiva. Expo ha avuto, nel complesso, ricadute positive per la città', basta farsi un giro a Porta Genova una sera qualsiasi per capirlo, e sarebbe assurdo negarlo. Se queste ricadute sono o non sono valse il prezzo e' questione che vedremo nei prossimi mesi, forse anni, e che comunque non si affronta certo con la retorica da social network, quella che piace a Fedez per intendersi: se si verificano episodi di corruzione il problema e' arrestare i corrotti e fare leggi adeguate, non certo prendersela con l'evento in quanto tale, perche' se questa fosse la logica, allora dovremmo smettere di costruire autostrade ed ospedali - che in passato hanno visto episodi di corruzione ben più' clamorosi di quelli legati a Expo. Certo, e' vero che chi si ricorda i presupposti con cui Expo era nato - biblioteca Europea, vie d'acqua, ecosostenibilità' eccetera eccetera - il risultato e' desolante: nulla di tutto questo e' stato fatto, i contenuti presenti sono pari a zero e l'impressione e' che, come nella fiaba, si attenda solo il ragazzino che urli "il Re e' nudo!", anzi, "il padiglione e' vuoto!". Alla fine, come avevamo già' scritto, Expo rimane una grande, multietnica festa dell'Unita', dove si mangia molto meglio e con molta più' scelta, che renderà' più viva una città' che nei mesi estivi e' tradizionalmente morta. Tutto il resto, le favole sui 25 milioni di turisti e le 15 mila prostitute, l'occasione storica e irripetibile, la metafora dell'orgoglio italico "pronto alla vita" e' propaganda o ciarpame retorico allo stato brado, specchio di un paese dove ormai il "vedere per credere" - io guardo un fenomeno e poi lo giudico - e' stato seppellito per sempre e sostituito dal "credere per vedere", ovvero la critica distruttiva o la celebrazione entusiasta a prescindere. Il no global con il passamontagna che spacca tutto fa il paio con il signore brizzolato, che il giorno dopo, con la faccia trasfigurata dall'odio e la spugna in mano, insultava una ragazza dicendo che Expo avrebbe "sfamato milioni di milanesi": entrambi sono il simbolo di un paese di Valcareggi bloccato in un eterno Mazzola-Rivera, dove ogni fatto, anche il più' insignificante, viene trasformato dall'opinione pubblica in Guerra Santa, occasione di scontro tra buoni e cattivi per prendersi a bastonate in testa e imporre all'altro la sua idea, anche se questa non ha neppure il minimo ancoraggio con la realtà'. Noi comunque a Expo torneremo ancora: sempre meglio mangiare lì che al baracchino delle zozze di Viale Argonne.