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Milano
Pd, Renzi cita il Modello Milano. Ma prima dovrebbe chiedere scusa

di Fabio Massa

Chissà se il discorso che ha fatto all'assemblea Matteo Renzi se l'è scritto. Magari gliel'ha scritto il fidato Nomfup ("non è un mio cazzo di problema") Filippo Sensi. Magari se l'è scritto da solo. Di certo se l'è preparato, studiato. Come un buon generale di Sun Tzu, ha percorso il campo di battaglia. Ha parlato con qualche sindaco, con i dirigenti. Lui, davvero, ha ascoltato, tanto da fare come ultimo atto della sua segreteria la visita in via Lepetit, nella segreteria milanese, che Affaritaliani.it ha anticipato. E infatti se ne è venuto fuori bello bello con il "modello Milano". Il problema è che, per dirla con Aristotele, coloro che scrivono discorsi ottengono successo più per l'elocuzione che per il pensiero. Mica una cosa nuova, il modello Milano, tanto per dirla tutta, visto che il modello Milano è antecedente a Renzi, ma anche a Letta. E' antecedente anche a Bersani, se è per questo, e anzi il Bersani che conosciamo noi il modello Milano non l'avrebbe neppure voluto, visto che tramite il suo braccio destro dei tempi, il poi ripudiato per via giudiziaria e via sms Filippo Penati (che è di Sesto San Giovanni), non tifò (né lo fece il partito di allora, i cui esponenti sono oggi solidamente tra le fila degli scissionisti) per Pisapia ma per Boeri. Perché il modello Milano nasce con Pisapia. Ma non è Pisapia, perché altrimenti basterebbe sostituire il Renzi con il Giuliano, e il gioco sarebbe fatto. 

Il modello Milano erano gli amministratori che Pisapia si è scelto, a volte anche in contrasto con la dirigenza dem di allora, che comunque fece fare (filosofia di una stagione). Amministratori democratici sono dietro a tutte le scelte (dicasi tutte) che oggi fanno di Milano una città fuori dall'Italia (ma in positivo). L'Area C? La politica di bike sharing, car sharing, più metropolitane (Maran), riformulazione del piano di governo del territorio (De Cesaris), cultura (eh sì, Boeri), welfare (Majorino). Le scelte di marca "Pisapia", ovvero originarie da un'esperienza marcatamente fuori dal Pd, non sono pervenute, sulla linea d'arrivo dei risultati (con qualche eccezione, tipo D'Alfonso). Ecco, il modello Milano nasce là in mezzo. In mezzo ai Dem. Nasce con quattro ragazzi al bar che si inventano un circolo, lo 02PD, che era scritto avrebbe scalato il partito milanese. Con o senza Renzi. E infatti Pietro Bussolati è diventato segretario come era naturale che fosse. Quando hai le tessere, le persone e le idee, non c'è molto che ti possa sbarrare la strada, sul territorio.

Da là, il modello Milano si è rafforzato. A Milano si è affermato che ci dovessero essere le primarie anche quando Roma avrebbe voluto incoronare Beppe Sala senza bando ad evidenza pubblica. E' stato un bene per Sala. Non per le sue coronarie pur allenate da anni di calcetto, forse. Ma per la sua tenuta psicologica, la palestra, l'esplorazione della città e la sua conoscibilità sicuramente sono state positive. E anche per il percorso politico che ha portato la sinistra rappresentata da Sel a non volersi e non potersi sfilare. A Milano non esiste una questione "di sinistra" a sinistra del Pd. Semplicemente perché il percorso è stato condiviso. Un altro dato da tenere a mente è che sul rush finale Beppe Sala ha invitato Renzi e la Boschi a stare lontani da Milano. Ci pensa il partito locale a telefonare a tutti, dicasi tutti per vincere, state pure a casa. Così, mentre Forza Italia si squagliava perché i ragazzi terribili delle preferenze azzurre (Sardone, Comazzi, Tatarella, ad esempio) mollavano il colpo e Parisi neanche se ne accorgeva, il Pd milanese mobilitava il partito. E l'ingranaggio riprendeva a girare perché era stato oliato da centinaia di visite nei circoli, per migliaia di decisioni prese, assemblee, mal di pancia e tutto il resto che circonda la figura del segretario. A Milano è tutto un tuo cazzo di problema, se fai il segretario dem oggi e Ds ieri. Tutto. Nomfup Milan non può esistere.

Ora, in tutto questo, Milano è andata avanti con il suo modello. I suoi dirigenti, perfettamente ignorati a Roma. A Milano ha vinto il sì il 4 dicembre. I 343.737 voti pari al 51,1 per cento non hanno salvato Renzi, ma gli hanno consentito di indicare oggi il Modello Milano come quello da seguire. Così, i 10440 voti di Cernusco sul Naviglio per il sì, il 51,9 per cento, sono stati conquistati più dal sindaco Eugenio Comincini, l'esempio che oggi Renzi cita, che da Renzi stesso. Comincini ha passato due anni da vicesindaco metropolitano, della costituita Città Metropolitana di Milano, che da sola dovrebbe costituire motivo per mandare a casa a calci nel sedere il ministro Delrio, per lo scempio che è sotto gli occhi di tutti, e specialmente dei cittadini che la pagano. Comincini da vicesindaco della città metropolitana ha passato due anni a dire che non c'erano soldi neppure per l'ordinaria amministrazione. Roma non c'era, e a Roma c'era Renzi. Oggi viene citato come eccellenza. Per lui è pronto un posto da senatore o onorevole? Poco importa. Importa che ad oggi è il sindaco di una piccola città di provincia. Bravo, bravissimo, ma finora è restato là.

Lele Fiano è un parlamentare milanese da tre mandati. Prima si è fatto la gavetta in consiglio comunale a Milano. Non c'è una persona in Italia che non sappia quanto è competente nel settore della sicurezza. Lui semplicemente è appassionato. Sa. Fa parte del modello Milano, e per Milano si è anche messo a disposizione per assicurare le primarie. Missione compiuta. Matteo Renzi non l'ha voluto viceministro prima e sottosegretario poi. 

Sapete quanti milanesi di marca dem c'erano nel secondo governo della diciassettesima legislatura (quello Renzi, appunto)? Zero. A meno di voler considerare il sottosegretario Scalfarotto, nativo di Pescara e residente a Londra, come un milanese. O di voler aggregare al Pd Ilaria Borletti Buitoni, che però in parlamento ci è entrata grazie a Monti, mica al Partito Democratico. Perché la verità è questa: nei posti che contano Milano non c'è. C'è Luigi Casero all'Economia, che ai tempi era il coordinatore cittadino di Forza Italia (interviste concesse in tre anni di mandato, ai tempi: una), che peraltro è di Legnano. Ah già, c'è Maurizio Martina. Che però è di Bergamo. Bergamo non è Milano, anche se pure là Gori sta facendo un gran lavoro (e infatti il sì ha vinto anche là, chissà come mai, si vede che era un suo cazzo di problema pure quello). 

Ora guardiamo il terzo governo della diciassettesima legislatura. Milanesi? Come sopra. Zero. Il Partito retto solidamente da Renzi, ha mai mosso un dito? Il lodigiano Lorenzo Guerini si è visto sotto la Madonnina. Ma dirigenti del Pd milanese a Roma non hanno mai toccato palla. Sapete chi ha avuto l'intelligenza di farsi una sua rappresentanza a Milano? Andrea Orlando. Sono pochi, ma di qualità, tra Carlo Cerami e Paolo Zinna e Laura Specchio e altri. La conclusione è semplice: Matteo Renzi prima di citare il modello Milano dovrebbe chiedere scusa. Scusa a Lele Fiano, ai dirigenti milanesi, ai militanti, a quelli che pur arcigni e un po' incazzosi (leggasi Majorino) hanno trainato di brutto per le primarie, ai rompipalle come Boeri, agli organizzatori come Razzano e Bussolati, agli esperti come Mirabelli e se di qualcuno mi scordo è perché non c'è spazio. Chieda scusa perché il modello ce l'aveva là, sotto al naso. Se volesse, può ricorrere al mitico ingegnere blu di Arbasino: "Devo pregarla, con infinite scuse, di voler dimenticare il mio balordo programma: in altre parole di non fare nulla di ciò che le avevo detto. Meglio perdermi che trovarmi".

@FabioAMassa
fabio.massa@affaritaliani.it

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