Politica

L'inesorabile declino di Massimo D'Alema. Analisi

Marco Zonetti

Da berlusconiano a grillino ad honorem

Che Massimo D’Alema non avesse gradito la propria rottamazione per mano di Matteo Renzi era palese, ma la battaglia referendaria e la sconfitta del Sì sembrano aver soffiato sulle fiamme dell’acredine dell’ex ministro degli Esteri che non perde occasione per togliersi dalle scarpe “sassolini” di qualche tonnellata contro il segretario del PD. Ultima boutade in ordine cronologico: Matteo Renzi porterebbe a sconfitta certa alle elezioni. Immediatamente, nell’ascoltare questa sentenza sono tornate alla memoria le parole con cui Giachetti apostrofò “Baffino” prima delle consultazioni capitoline: “Dove c’è lui si perde sempre”  E in effetti, a memoria d’uomo, non ci si ricorda di una sola vittoria di D’Alema, neanche nel suo periodo d’oro.

C’era un tempo in cui era ritenuto una sorta di machiavellico stratega dall’intelligenza sopraffina, una sorta di Richelieu redivivo baffuto come De Gaulle, brizzolato come Kissinger e snello come Berlinguer, insomma la quintessenza dell’aspirante statista. Dopo aver contribuito a ridimensionare esponenzialmente i consensi dell’allora idolo delle folle Antonio Di Pietro, tentandolo con le sirene di un seggio al Mugello e poi con un ministero, una volta deciso di approdare a Palazzo Chigi quale premier alla caduta del governo Prodi, Massimo D’Alema decise di affidarsi a un restauro totale della propria immagine mettendosi nelle mani sapienti di Fabrizio Rondolino e Claudio Velardi che tentarono l’impossibile: renderlo simpatico agli italiani. Fra risotti preparati da Bruno Vespa (già preceduti dalla famigerata crostata a casa Letta), foto al timone della sua barca Ikarus II strizzando l’occhio all’Avvocato nazionale, gare di agility con il cane Lulù e acquisti attribuitigli di scarpe dal costo pari allo stipendio di un operaio, D’Alema si liberò forse della polverosa patina vetero-comunista ma riuscì al tempo stesso a inimicarsi gran parte degli elettori di sinistra (che non avevano mai mandato giù il suo presunto complotto per abbattere Prodi). Il fallimento del progetto della “Cosa” con Marco Minniti, quello della tanto sbandierata Bicamerale, e soprattutto il rimpasto di governo aggrappandosi ai voti di Clemente Mastella e Francesco Cossiga per sopravvivere con un criticatissimo ed effimero “D’Alema bis”, stroncarono per sempre le sue velleità di primo ministro, avviando una inesorabile parabola discendente, seppur intervallata da un breve, apprezzato intervallo come Ministro degli Esteri nel secondo Governo Prodi. Un sassolino di trionfo in un mare di catastrofi.

Oggi, sempre simpatico come una cartella esattoriale di Equitalia – Alba Parietti all’epoca compagna del filosofo Bonaga gli attribuì un “aspetto da pignoratore di appartamenti” – l’ex segretario del PDS fa il bello e il cattivo tempo nei talk show sperticandosi in dichiarazioni taglienti che non sfigurerebbero nel retrobottega di una parrucchiera e in tutto un repertorio di smorfie e faccette inviperito-annoiate che fanno la gioia di cameramen e dei programmi satirici. E tuttavia, accusando Matteo Renzi di essere foriero di sconfitta certa alle elezioni, finisce per ricordare le prefiche citate da De Andrè in Bocca di Rosa, quelle che sono prodighe di “buoni” consigli perché non possono più dare il cattivo esempio. Cattivo esempio di cui per anni D’Alema è stato l’emblema, affossando tutti i governi di Centrosinistra e facendo il gioco degli avversari, con l’appoggio velato a Berlusconi allora e al m5s oggi. Da berlusconiano a grillino ad honorem: declino inesorabile nonché ultimo chiodo sulla bara dell’autorevolezza di quello che, ormai molto tempo fa ahilui, era ritenuto il politico più intelligente del panorama italiano.