Palazzi & potere
Per battere il populismo servono competenze e opportunità
Un’epoca di crescita economica che ha generato profonde diseguaglianze nella distribuzione e che ha visto la progressiva sostituzione del lavoro tradizionale con forme più smart, può essere una valida chiave di lettura per razionalizzare le elezioni americane, l’esito referendario britannico e un’ipotetica vittoria lepenista in Francia
Una conseguenza di tali mutamenti è stato l’aumento del divario tra fasce sociali, poiché negli ultimi decenni una parte crescente del reddito nazionale delle economie avanzate è andata a remunerare principalmente il fattore capitale anziché il lavoro. Quindi in media, il 10% delle famiglie più ricche ha un reddito disponibile circa dieci volte superiore quello del 10% delle famiglie più povere, mentre negli anni ’80 era superiore “soltanto” di 7 volte.
Naturalmente le intese favorenti il commercio internazionale hanno avuto dei risvolti positivi, come la diminuzione della povertà nelle economie emergenti e la creazione di una classe media nelle stesse. Tuttavia, anche in queste economie si osserva lo stesso problema che riguarda i Paesi avanzati, ovvero una crescita non inclusiva. La crisi ha poi esacerbato le diseguaglianze, evidenziando come la recessione abbia penalizzato maggiormente le fasce della popolazione più deboli.
Le diseguaglianze nella distribuzione e l’incremento dei tassi di povertà nelle fasce di popolazione giovanili dei Paesi avanzati, Italia inclusa, sono fattori che, sul lungo periodo, comprimono le possibilità di avanzamento sociale, minando la coesione di un Paese. È nella concatenazione di questi fenomeni che va ricercata la radice dell’ondata neo-protezionista, che attraversa il Nord America, passa per l’Europa insulare e lascia con il fiato sospeso quella continentale. Derubricare lo shock elettorale americano all’azione di un populismo che ha fatto breccia in un elettorato manovrabile sarebbe, dunque, semplicistico.
Non è un caso che Trump abbia annunciato, da neoeletto, la volontà di bloccare la ratifica dell’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e undici Paesi dell’area del Pacifico con la rilevante eccezione della Cina (TPP). Decisione che fa eco alla diffidenza dell’opinione pubblica rispetto ai negoziati per la creazione di un’area di libero scambio tra Stati Uniti e Europa (TTIP) e all’accordo simile tra Unione Europea e Canada (CETA).
Tutto ciò deriva dalla constatazione di come questo genere di intese tutelino il commercio mentre poco si adoperino per salvaguardare il lavoro da eventuali frizioni che una zona transatlantica di libero scambio causerebbe. Bisogna però ricordare che nel commercio internazionale gli accordi di libero scambio servono non soltanto ad eliminare i dazi, ma soprattutto a fissare standard regolamentari equivalenti, con lo scopo di snellire le procedure burocratiche, abbattere barriere tecniche agli scambi e innalzare la protezione delle produzioni.
In definitiva, l’ostilità agli scambi commerciali, alla concorrenza straniera e all’integrazione delle economie difficilmente sarà la panacea della classe media americana ed europea e, anzi, può causare ritardi nell’adeguamento tecnologico delle imprese e nella modernizzazione dei sistemi produttivi, incidendo negativamente sulla competitività di un Paese. Peraltro, il protezionismo da solo non basterà nemmeno a ridurre le diseguaglianze interne, in assenza di politiche redistributive efficaci.
A questo scopo, è necessario che le risorse recuperate dalla tassazione con finalità redistributiva siano investite in politiche sociali e del lavoro che oltrepassino il concetto di assistenzialismo per abbracciare quello dello sviluppo di competenze e del job-matching, oltre che in formazione e istruzione di qualità a beneficio soprattutto delle fasce più povere, al fine ridurre la diseguaglianza che per certi versi conta di più: quella delle opportunità.
Benedetta Fiani