Premio Strega: la letteratura parla dell’oggi anche quando racconta di ieri
Premio Strega: intervista allo scrittore Marco Balzano, finalista 2018 con "Resto qui’", Einaudi
Scrittore, poeta, saggista e insegnante di liceo, Marco Balzano, Premio Campiello 2015, di Milano, classe 1978, è tra i cinque finalisti del Premio Strega 2018 con Resto qui, Einaudi, il suo quarto romanzo. Abbiamo conversato di letteratura ‘’civile’’ e ‘’politica’’, resistenza e fuga, progresso e umanità. Abbiamo scoperto la storia appassionante che si nasconde dietro al campanile che galleggia sull’acqua di Curon in Alto Adige, ma soprattutto che la parola di uno scrittore ‘’ non salva, ma restituisce un’umana dignità alle cose’’, come fa ‘’Resto qui’’, aggiungiamo noi.
Che cosa la lega a Curon, paesino del Sudtirolo, il cui originario borgo fu distrutto per costruire una diga, progetto dell’epoca fascista, attuato completamente nel 1950 anno in cui fu invaso dal lago artificiale di Resia. Luogo in cui ha ambientato il suo romanzo nel quale l’aneddoto storico si intreccia alla storia da lei inventata della protagonista Trina e della sua famiglia?
Ci sono finito per puro caso in questo luogo in un giorno d’estate di quattro anni fa. Penso che l’immagine del campanile che galleggia sull’acqua sia un’immagine di grande potenza narrativa, di un’oggettiva potenza narrativa, questo accade poche volte e a me mai era accaduto, e benché io creda ancora che uno scrittore debba andare a cercare le storie, a frugare per trovarle, è retorico dire che la storia mi è venuta incontro però che quella immagine che mi sono trovato davanti agli occhi comunichi una storia questo, sì, l’ho avvertito. Inoltre, l’idea che non avessi nulla in comune con quel posto, nulla dal punto di vista biografico, delle conoscenze, che non sapessi nulla di quella vicenda, era esattamente ciò che volevo. Questo è il mio quarto romanzo, gli altri tre avevano dei temi ricorrenti: il lavoro, l’emigrazione, i conflitti generazionali, c’era sempre Milano spesso in confronto con il sud d’Italia. A un certo punto credo si abbia bisogno di stare meno comodi nel proprio orizzonte di scrittura. Curon era un posto in cui bisognava partire da zero e però c’era uno stimolo forte che era l’immagine del campanile sommerso, di grande inquietudine, e l’idea che dovevi immergerti nell’ acqua e riportare a galla qualcosa che è finito sotto, qualcosa che è stato dimenticato, qualcosa di cui non si parla.
Questi sono stati degli stimoli sufficienti per fare un lavoro lungo ma che da subito mi ha appassionato e non ho avuto esitazioni, questi elementi mi sono bastati perché io mi ci buttassi.
Lei è tornato quattro volte a Curon. Ha impiegato due anni per ricostruire la storia di quel luogo e ha incontrato dei testimoni della vicenda dell’epoca.
Più o meno tutti i testimoni viventi di allora, che sono cinque, e abbiamo parlato a lungo. Una di loro mi ha fatto vedere la fotografia di questa donna anziana che sta in ginocchioni piegata sul tavolo di casa sua quando il paese è stato già completamente sfollato ed è tutto allagato e anche casa sua è allagata. Questa donna rimane lì e la devono portare via, la foto è scattata dalla barca con cui la stanno andando a prendere. Quella donna si chiamava Trina, doveva essere il mio personaggio cioè una donna resistente anche quando sai che resistere non servirà. Però volevo una donna capace di puntare i piedi a terra anche quando sotto non ha più la terra ma l’acqua. A quel punto ho inventato una storia intima, familiare, personale, perché mi serviva una chiave per raccontare la Storia con la S maiuscola, che però in sé è un argomento brutale, privo di umanità. La letteratura ci fa finire sempre dentro la Storia, ma a primeggiare deve essere sempre l’umanità.
Lo definirebbe un libro di denuncia?
Non penso che sia la definizione migliore per il mio romanzo. È un libro politico nel senso che parla delle difficoltà drammatiche delle relazioni con la politica, con i confini, con le identità, con la lingua, ci sono delle tematiche estremamente politiche. A sua volta entra in una famiglia più grande quella del ‘’romanzo civile’’. Ho scritto sempre e solo romanzi civili, il precedente parlava dell’emigrazione dei bambini italiani negli anni Sessanta e ho lavorato sostanzialmente con la stessa tecnica. C’era un episodio storico di cui per mille ragioni non si era mai parlato, di cui ho raccontato, che sbatte evidentemente contro la realtà, i bambini emigrati sembra che siano solo i siriani e i magrebini che sbarcano con i gommoni. A raccontare questa storia ci vuole qualcuno che sia un personaggio letterario a tutti gli effetti e che stia davanti alla Storia. È la Storia che deve attraversare il personaggio, non il contrario.
Un libro, la letteratura in genere deve svelare verità nascoste, talvolta imbarazzanti e dolorose?
Secondo me la letteratura, l’arte in genere, quando lo sono pienamente, non sto dicendo che la mia lo sia però nelle intenzioni uno prova a farla, parlano dell’oggi anche quando raccontano di ieri. Mi interessa in maniera relativa del bambino siciliano emigrante degli anni sessanta o del paesino altoatesino di confine, mi interessa come punto di partenza perché in realtà la storia di Curon è la storia dei No Tav, la storia di mille paesi distrutti, la storia della dialettica che c’è tra progresso e consenso. Non ti metti a raccontare perché un aneddoto è un aneddoto. Tu racconti quella storia perché hai l’illusione, mentre la scrivi, che sia anche una storia di oggi, e che sia anche tante altre storie. Una storia che ha ricadute sulle storie recenti. Il rapporto tra progresso e democrazia ci interessa anche oggi. Per tutti vale quello che noi chiamiamo progresso? Per i miei protagonisti no, se il progresso degli altri implica la tua distruzione in democrazia qualche domanda dovremmo porcela?
Esiste un compromesso tra progresso e democrazia?
A me interessa lanciare delle domande, che è l’unico metro reale di successo di un libro. Quando leggiamo l’importante è che si aprano delle questioni non che si diano delle risposte, ciascuno se le cerca faticosamente. Mi interessa che il lettore si faccia la domanda, che provi a cercarla una risposta e una visione delle cose. Sicuramente se siamo in democrazia le prassi dovrebbero essere democratiche fino in fondo anche quando si tratta di attuare il presunto progresso. Questo non è avvenuto.
L’ attuale Edison, ex Montecatini, che allora costruì la diga di Curon, non ha mai risposto alle sue email e alle telefonate?
No, non ho mai avuto possibilità di accedere agli archivi, di parlare con qualcuno o di leggere i loro documenti.
Secondi lei si sono sentiti accusati o minacciati dal suo romanzo?
Non ne ho la più pallida idea, sono stato sempre rimbalzato al telefono e via email. Ma va bene, perché la frustrazione è una benzina quando devi arrivare a un traguardo. Ho avuto tanta bibliografia, ho conosciuto tante persone, ho parlato con ingegneri, professori, bibliotecari, testimoni, non è vero che per scrivere un libro bastano un computer o la carta e la penna. Bisogna connettersi con le persone, andare a rompere le scatole a persone con cui poi si intreccia un notevole debito di gratitudine di parole.
Guardare ci cambia lo sguardo e lei ha scelto di guardare e di raccontare attraverso lo sguardo di un personaggio da lei creato, Trina, una madre, moglie, figlia, una donna che vuole anche emanciparsi, ha studiato da maestra elementare, una donna forte che resiste, perché ha scelto di narrare attraverso gli occhi di una protagonista femminile?
Erano anni che volevo provare a scrivere una storia con una prima persona femminile, lo aspettavo da tanto ma non avevo trovato la storia giusta e questa volta è arrivata. Quella fotografia mi ha colpito e mi sembrava che valesse la pena provarci. Io sono padre e magari quando diventi padre capisci anche la complessità dell’essere madre. La mia protagonista è una donna che ha radici nel suo paese natio, ma le sue prime radici sono quelle interiori, radici di affetto, di madre. Radici di sangue. All’inizio quando inizi a scrivere e sei giovane hai voglia di raccontare di te. Adesso no, ho voglia più di togliermi dalle scatole. Questo sguardo di donna era interessante. Raccontare ‘’Resto qui’’ con la voce del marito sarebbe stata una storia più prevedibile, non avrebbe avuto quell’originalità che sta piacendo ai lettori. La scrittura è principalmente l’esplorazione dell’altro.
Esiste una differenza tra scrittura maschile e femminile?
Virginia Woolf dice che uno scrittore è un anfibio: non esiste uno scrittore che sia totalmente uomo o totalmente donna, c’è una forte commistione, una intensa capacità di mutamento. Mi piace credere a questo, poi è ovvio che storicamente lo sguardo di un uomo specialmente nei confronti del sesso, del sentimento, delle relazioni sia qualcosa di visibilmente differente da quello di una donna, però io su queste storicizzazioni non ho molto interesse a sedermi. Uno se sogna lo fa a colori. Come aspirazione da scrittore per me conta di più quello che diceva Virginia Woolf. Un autore che impari a farsi altro. Se lo scrittore sa esclusivamente rimanere prigioniero di se stesso faccia in modo che la sua prigione sia molto bella da raccontare.
L’espediente narrativo ‘’epistolare’’ della protagonista che scrive, si rivolge, alla figlia, Marica, un personaggio peraltro molto presente anche se poi è fisicamente assente, da quali esigenze tecniche e di contenuto nasce?
Mi serviva un espediente di un certo peso per evitare il romanzo storico nel senso classico cioè cronistoria, terza persona, e mi serviva questo espediente di rivolgermi a un’assenza perché permetteva alla protagonista di adottare una tonalità epistolare quindi intima, quindi calda, fortemente soggettiva. Tu quando parli con tua figlia dici quello che vuoi, lo dici come ti pare, questo è molto importante perché mi dava possibilità di caratterizzare la voce con grande libertà. In letteratura bisogna sempre provare a far parlare il silenzio, la lacuna, l’assenza. Marica è un personaggio molto ingombrante proprio perché è assente, permette di essere, viceversa, anche un ‘’tu’’ più generico, un tu lettore, un tu postero, un tu fuggitivo che non si è preso la responsabilità di restare. Sia da un punto di vista tecnico formale, sia da un punto di vista stilistico, mi sembrava che funzionasse.
La lingua diventa un marchio a fuoco sulla pelle dei suoi personaggi a causa di quella che è stata la Storia del fascismo in quei luoghi. Ancora oggi la lingua può definire l’identità come accade nel suo romanzo?
Per fortuna è cambiata a monte l’idea di identità. Un conto è parlare di identità in una comunità montana degli anni Trenta, chiusa nella sua valle, un altro è parlare di identità a un ventenne di oggi che già solo con lo smartphone, se lo desidera, si collega dall’altra parte del mondo parlando una lingua diversa, riceve stimoli economici, politici, culturali digitando stando a contatto con gli altri. È l’identità che è cambiata perché minata nel suo valore conservativo, e questo lo reputo un bene. Perché l’identità in sé ha in qualche modo un’accezione conservativa, fortunatamente siamo in un’epoca molto più fluida da questo punto di vista, in tutto questo la lingua è uno strumento di identificazione basilare e primaria con l’altro quando incontri dall’altra parte del mondo uno che parla la tua lingua, ma non di identità.
Le parole circoscrivono, limitano o danno libertà, le parole che mancano a Erich deve scriverle Trina, ma quanta forza hanno le parole per uno scrittore?
Quando scrivevo di Trina che dava le parole a Erich, per quanto Trina sia distante da me per tempo, storia, genere, pensavo che in fondo non fa niente di diverso da quello che fa uno scrittore cioè praticare le parole a prescindere, anche quando sai che le parole non cambieranno le cose, anche quando sai che non ti salveranno. È un modo di stare al mondo la pratica della parola, l’abitazione della parola. Mi interessa poco che le parole cambino il mondo o addirittura ci salvino, non è importante. A me piace il filosofo Montaigne, mi piacciono le persone che la ritengono utile la parola e l’utilità ha una funzione maggiore della salvezza cioè quella di restituire dignità per il solo fatto di far riaccadere delle cose che magari si sono consumate in una maniera molto più definitiva. Invece, la parola può dare i nomi alle cose e raccontando queste stesse non riscrive la storia, non salva, ma restituisce un’umana dignità.
Ho letto nella postfazione che è rimasto colpito dai numerosi selfie che i turisti si fanno davanti al campanile galleggiante di Curon. Dopo aver letto il suo libro con quale sguardo il lettore che va a Curon dovrebbe guardare il campanile?
Da parte mia non c’è nessun giudizio moralistico nella persona che si fa il selfie davanti al campanile di Curon, c’è la constatazione che il meccanismo della Storia è un meccanismo esistenzialmente violento che non ti dà il tempo di capire dove stai appoggiando i piedi. Reputo che ci sono delle fasi in cui tutto si deposita sopra di noi e non abbiamo, oggi più di ieri, il tempo di sapere che cosa c’è sotto i nostri piedi. Giacomo Leopardi diceva che la poesia ha fatto il suo compito se per mezz’ora dopo che l’hai letta non fai pensieri osceni. Ecco, se alla fine del mio libro hai dei pensieri in più e magari ti fai anche il selfie ma con un’altra consapevolezza, allora è valsa la pena scriverlo.