Palazzi & potere

SE ROMA NON È MAFIOSA...

Nel profluvio di dichiarazioni all'indomani della sentenza del tribunale di Roma, con la quale si comminano condanne severe agli imputati ma si cancella l'ipotesi di associazione mafiosa, talché viene meno il teorema di "Mafia Capitale" che tanta fortuna ha regalato ai cultori della tesi di una politica (romana) ridotta in schiavitù dei poteri malavitosi, l'affermazione più equilibrata ed avveduta l'ha pronunciata il Procuratore Pignatone.

Infatti, scrive Il Domani d'Italia, dinanzi a rissosi tentativi di interpretazione partigiana della sentenza, con l'obiettivo di esaltare o sminuire l'operato della magistratura inquirente, il Procuratore ha voluto ricordare che la politica ha l'opportunità di compiere una riflessione seria sul grave fenomeno corruttivo - mafia o non mafia - che l'inchiesta ha messo in evidenza e il processo ha largamente confermato.

Questo è un dovere di tutti, anche dei grillini che pensano di esentarsi dal confronto in virtù della loro genetica antipolitica. Sta di fatto, però, che a partire della Raggi il leit motiv dei Cinque Stelle è tutto incentrato sulla rivendicazione di estraneità, quale che sia la necessità di un'analisi di merito per accompagnare l'identificazione delle colpe e dei rimedi. Si conferma, dunque, che la politica del Movimento è rivestita di nulla e si nutre di nulla, salvo rigonfiarsi di acredine per l'eventualità di scandali, veri o presunti, sempre utilmente sfruttati.

A destra, invece, si sono levate voci ai limiti dello sdegno per il fatto che la Procura ha fallito nel tentativo d'includere gli atti contestati nel quadro normativo del 416 bis, poiché appunto questo richiamo è stato ritenuto improprio dai giudici e quindi accantonato. Dentro Forza Italia s'invoca ora una sorta di riscatto degli imputati, come se in conclusione non fossero stati condannati affatto. Tutto fa brodo, insomma, per alzare l'ennesimo polverone in nome dell'antigiustizialismo, sorvolando sul fatto che sotto Alemanno e Marino, in pervicace continuità di comportamenti anomali, fosse cresciuta la mala pianta della corruzione.

Il Pd, per parte sua, non ha dato finora una risposta chiara, ma più di una e in modo da accrescere lo stato di disorientamento della pubblica opinione. È riesplosa la polemica sulle dimissioni di Marino, con i fan dell'ex sindaco impegnati a dimostrare che in assenza di reati mafiosi l'azione intrapresa dal Marziano, propriamente a tutela della trasparenza e correttezza dell'attività amministrativa, richiedeva o imponeva il sostegno del gruppo dirigente del Pd. A scanso di equivoci, allora, altre sortite hanno avuto come timbro l'allarmismo, atteggioso e banalotto, attorno alla circostanza che in fondo a Roma la mafia esiste ed opera in effetti con mezzi sempre più incisivi. Ma non si capisce, onestamente, il senso di tale asserzione, giacché una cosa è sostenere, ad esempio, che la mafia è presente (eccome!) a New York, altro è proclamare sui giornali e le televisioni di tutto il mondo che la mafia ha in mano la città, sicché i newyorkesi sarebbero essi stessi, volenti o non, immersi nella logica di una grande comunità a dominante mafiosa.

Ecco, in questo lungo tempo a cavallo del processo sì è speculato su Roma Capitale della mafia, quindi sui romani a rischio di mafiosità, in un gioco di assoluta negligenza e superficialità di tanta parte della classe dirigente, nazionale e locale. Oggi, se davvero il centrosinistra volesse lasciarsi alle spalle gli errori del passato, rinunciando ai toni e ai modi di una politica alla Robespierre, dovrebbe compiere il passo decisivo in direzione di una nuova cultura dell'amministrazione e dello Stato.

La corruzione, del resto, non la si combatte delegando Cantone alla funzione di predicatore onnicomprensivo, con l'accettazione sotto banco di una dialettica negativa tra disarmo morale degli amministratori locali e instaurazione di un neo-centralismo burocratico, fino a registrare addirittura la pervasiva potestà di controllo dell'Autorità anti-corruzione persino sui siti web dei circa ottomila comuni italiani. La prima regola per restituire valore e dignità all'impegno nelle istituzioni, in modo speciale nei Comuni, consiste nel superamento di un modello che in nome della governabilità e dell'efficienza ha comportato lo svilimento dei controlli da parte delle assemblee elettive e quindi la mortificazione del ruolo delle opposizioni.

Questo, in sintesi, è ciò che Roma ha messo allo scoperto: un modo di organizzare le procedure amministrative al riparo della legittima (e necessaria) funzione di "contrasto metodologico" delle minoranze. Il Sindaco super-manager sì è trasformato con l'andar del tempo in un "commander in chief", senza adeguati contrappesi né in Giunta, né in Consiglio comunale. A questo punto l'irresponsabilità degli organi, resi subalterni alla volontà del Sindaco e immiseriti nel loro tran tran inconcludente, sì è rovesciata nell'attitudine degli eletti al puro mercanteggiamento, non essendo (o non potendo essere) presente in Aula lo spirito della Politica, quella con la p maiuscola.

Se non si affronta il nodo della "questione amministrativa", quindi del buon funzionamento della macchina politico-burocratica locale, ogni pretesa di vittoria sulla corruzione è destinata a sfumare nel vaniloquio e nella presunzione dei vari populismi.