Palazzi & potere

Stati Uniti e Russia: ancora una volta rivali strategici

Gabriele Natalizia* e Lorenzo Zacchi**

Negli ultimi anni la competizione è divenuta particolarmente evidente

Il mondo sta per essere trascinato in una nuova “Guerra fredda”? È una delle domande a cui si è provato a rispondere nella conferenza Le relazioni tra Russia e Occidente nell’area Baltica e nel Caucaso. A cento anni dalla fine della Grande guerra, recentemente organizzata dalla Link Campus University con la collaborazione della Fondazione Egor Gaidar e della Fondazione Roma Sapienza.

La dinamica di potere tra Stati Uniti e Unione Sovietica ha costituito per quasi mezzo secolo la vicenda centrale delle relazioni internazionali: due blocchi contrapposti, guidati da altrettante superpotenze alla ricerca dell’affermazione di un’egemonia globale, legittimata da modelli politici, economici e sociali antitetici. Una divergenza di interessi, quella tra Washington e Mosca, che da molti era spiegata con il ricorso alla variabile domestica: la rivalità avrebbe trovato origine nelle profonde differenze tra i rispettivi regimi politici delle due potenze. Questa era l’interpretazione di George Kennan nel famoso Long Telegram del 1946. Gli assunti del telegramma, poi riformulati in un famoso articolo di Foreign Affairs firmato da Mister X, furono radicalmente contestati da Walter Lippmann. Quest’ultimo interpretava la ricerca sovietica di una sfera d’influenza sull’Europa orientale e di un accesso al Mediterraneo come un’eredità dell’Impero zarista e, pertanto, sosteneva che doveva essere trattata come una “costante” della politica estera russa, dettata da condizioni esterne anziché interne.

Il mutamento sistemico seguito al collasso dell’URSS, che ha determinato il passaggio dal sistema bipolare a quello unipolare a guida-statunitense, ha costituito la cornice da cui è scaturita la ben nota teoria di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”. Questa ha condizionato profondamente il dibattito sia politico che scientifico in tutto il mondo per tutto il corso degli anni Novanta e Duemila. Meno noto al di fuori della comunità accademica, ma intimamente collegato alla prima, è stato il cosiddetto approccio transitologico, secondo cui la democrazia avrebbe avuto la capacità di attecchire universalmente e senza pre-condizioni. La “terza ondata di democratizzazione”, iniziata nel 1974 in Portogallo e culminata con il crollo dei regimi comunisti in Europa orientale nel 1989, sembrava confermare l’esattezza di tale lettura dei profondi mutamenti in corso.

All’interno del nuovo contesto politico-strategico post-Guerra fredda, quindi, una parte cospicua dell’élite americana si convinse della possibilità di integrare la Federazione Russa nell’ordine liberale, qualora il suo processo di democratizzazione avesse prodotto un esito positivo. Tale convinzione ha trovato riscontro nel tentativo dei primi tre presidenti degli Stati Uniti eletti dopo il 1991 di integrare la Russia nel nuovo ordine internazionale: Bill Clinton con la politica del Russia first, George W. Bush con la collaborazione nella Global war on terror e Barack Obama con il Russian reset. Ognuna di queste iniziative, tuttavia, si è bloccata di fronte all’emergere di vecchi e nuovi ostacoli e ogni Amministrazione è terminata con uno stato dei rapporti con Mosca peggiore di quelli che aveva trovato al suo avvio.

Nel secondo panel della conferenza alla Link Campus è stato evidenziato come le speranze di trasformare la Russia in un nuovo pilastro dell’ordine liberale siano andate via via sfumando con il suo progressivo rafforzamento. Uscita dal pantano ceceno alla fine dello scorso decennio e sostenuta da una forte crescita economica, Mosca è tornata a rivendicare il suo status di grande potenza. In questa fase si è anche arrestato il processo di democratizzazione iniziato dopo il collasso sovietico. La transizione verso una democrazia di tipo occidentale, se avesse mai preso inizio, è stata soppiantata dal consolidamento di un regime definito “democrazia sovrana” dalla classe dirigente russa, ma che i suoi critici non esitano a chiamare “democrazia guidata” (secondo Freedom House si tratta di un regime autoritario a tutti gli effetti). La Russia di Vladimir Putin, quindi, ha assunto una postura sempre più antagonista nei confronti del sistema internazionale a guida americana. Non a caso, è stata definita “potenza revisionista” nella National Security Strategy dell’Amministrazione Trump (dicembre 2017). Si è così rianimato il dibattito sulle ragioni profonde della competizione tra Stati Uniti e Russia, che ha nuovamente visto la contrapposizione tra quanti la imputano alla natura del regime politico russo e quanti a interessi strategici di lungo termine inconciliabili.

Negli ultimi anni la competizione è divenuta particolarmente evidente nella crisi dell’Ucraina e nel conflitto siriano, verso i quali si è concentrata l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Tuttavia, proprio nel secondo panel della conferenza alla Link Campus intitolato Baltico e Caucaso, le relazioni tra Russia e Occidente tra passato e presente, è stato ricordata l’esistenza di altri e potenzialmente altrettanto critici teatri di confronto: su questi bisogna iniziare a ragionare prima che tensioni più o meno “latenti” (presenza di russi nell’Area Baltica) o “congelate” (i conflitti del Caucaso meridionale) si trasformino in vettori di ulteriori crisi tra i giganti della politica internazionale.

*Link Campus University

**Centro Studi Geopolitica.info