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Palazzi & potere
"Vivere è un continuo apprendistato della perdita"

La scrittrice Nadia Terranova, nata a Messina, classe 1978, dopo il successo del romanzo  Gli anni al contrario (Einaudi, 2015), torna in libreria  con Addio Fantasmi (Einaudi, 2018), di cui è protagonista la 38enne Ida Laquidara, segnata dalla scomparsa del padre, andato via di casa abbandonando lei e la madre dopo una lunga depressione. La mancanza di un corpo da seppellire, della certezza della morte come consolazione, è il fantasma onnipresente di Ida, ‘’Gli occhi non sono qui. Qui non vi sono occhi’’ per dirla con T. S. Eliot. Nonostante il trasferimento da Messina a Roma, il matrimonio con Pietro, da più di venti anni la vita di Ida è caratterizzata profondamente  dall’assenza del padre, sino al giorno in cui è chiamata dalla madre per tornare nella casa di famiglia a Messina. E lì, tra fantasmi, ricordi e oggetti, dovrà fare i conti con il passato. Abbiamo conversato con Nadia Terranova e sui motivi che l’hanno portata a diventare una scrittrice ha detto: ‘’Scrivo per non impazzire, per poter oggettivare alcune cose che per me sono indicibili’’.

SI può dire addio ai propri fantasmi, alle proprie  ossessioni?

Quando l’ho scelto come titolo mi piaceva perché era l’associazione tra due parole negative, addio e fantasmi, che si annullavano l’una con l’altra o , almeno, attenuavano la loro negatività raccontando un sollievo, un conforto, la possibilità di una liberazione. Ora però, se devo essere onesta, non so se si possa veramente dire addio. Si può dire arrivederci. Si può imparare a conviverci con i fantasmi. Il grande stacco è sempre quello di non farsi condizionare da ciò che è accaduto, da un’assenza, da quello che la vita ti ha costretto a subire, perché non possiamo scegliere, ma possiamo reagire  nei confronti di ciò che la vita ci propone. Non possiamo impedire che la gente muoia, scompaia, che ci abbandoni,  però possiamo lavorare su come  portarci dietro queste perdite, come rendere noi stessi differenti.

 

L’abbandono del padre e non la morte, l’impossibilità di piangere un corpo morto, perché ha scelto di raccontare un’assenza così ingombrante?

Ho scelto la scomparsa, perché è un lutto impossibile da elaborare, da seppellire. Volevo raccontare un lutto ossessivo, qualcosa che si cristallizzasse nella mente della protagonista facendola restare bloccata. È vero che anche una morte provoca lo stesso effetto, però da un punto di vista metaforico la potenza dell’immagine della scomparsa rispetto al tempo e al modo in cui si ridisegna il tempo, al modo in cui consegna alla persona che la subisce l’impossibilità  di dire addio con un rito, mi interessava molto. Volevo raccontare una perdita in cui il rito non era  previsto, codificato, non era possibile, come può essere un funerale, o andare sulla tomba di qualcuno. Una scomparsa che costringesse  a inventarselo questo rito.

La scelta di Ida, che vive a Roma, di ritornare a Messina, città natìa, è anche la scelta dell’autrice di tornare alle proprie origini?

C’è un racconto di Leonardo Sciascia che ha un incipit bellissimo e dice che esiste soltanto un paese  nella vita cui poi torniamo  e che ricreiamo nella letteratura, si intitola ‘’Paese con figure’’ contenuto nella raccolta Il fuoco nel mare pubblicata da Adelphi. ( Legge ad alta voce, nda)‘’ Quando saremo lontani da questo piccolo paese in cui siamo nati e viviamo, quando finalmente ci sentiremo nascere dentro amore e nostalgia per le cose che oggi ci circondano e mortalmente ci annoiano -  di queste povere case ammucchiate, di queste persone che ogni giorno  incontriamo, il nostro ricordo riuscirà forse a comporre una  di quelle infantili e amorevoli costruzioni in cui cubetti di legno e figurine di coccio fanno affettuosa armonia; una povera e incantata armonia’’. Trovo in queste righe la sintesi di quello  che accade quando ricostruiamo con la letteratura il nostro luogo dell’infanzia  senza mitizzarlo però, cioè rendendoci conto che da un punto di vista umano, personale e psicologico è stato comunque una burrasca. Non abbiamo scelto, certo, il posto in cui vivere,  non abbiamo scelto la famiglia dalla quale siamo stati condizionati e spesso ne siamo scappati, come anche nel mio caso. E poi, a un certo punto, siamo tornati in quella provincia  alla quale  attribuivamo tutti i mali del mondo pensando magari da ragazzini : ‘’se non avessi vissuto qua, chissà cosa sarei, cosa farei, mi tocca questo luogo’’. Invece abbiamo letto, pensato, amato, c’è tutto quello che poi siamo diventati.

Il corpo per Ida è un oggetto da controllare, ripete a se stessa: ‘’Se succede al corpo non succede davvero’’. Ricorda il controllo del corpo nelle persone affette da anoressia.

C’è qualcosa di ossessivo e quindi di patologico in questa sua convinzione. In questo mantra che si ripete per cercare di separare quello che accade al suo corpo da quello che lei continua ostinatamente a pensare e a ripetersi. Intanto il corpo è una parola molto importante, oltre a essere il titolo della seconda parte del romanzo, è proprio nell’assenza del corpo di suo padre che lei ha visto crescere il suo di corpo. Quindi abbiamo questo specchio: un corpo che non c’è, maschile, adulto, che dovrebbe essere il corpo che ti protegge, anche quello per cui provi le prime sensazioni, come Freud ci ha insegnato, e contemporaneamente il suo corpo che se ne va per fatti suoi e, non a caso, le prime mestruazioni le vengono il giorno dei morti, il 2 novembre.  Quando una ragazzina è costretta a crescere, senza specchiarsi in un corpo paterno, ovviamente la conquista della sua femminilità è diversa rispetto a chi  ha le spalle coperte ed è una femminilità rabbiosa nel caso di Ida. Una femminilità molto scissa da quello che pensa, che prova e quello che invece fa, come accade nel caso della sua prima volta su cui è come non avesse nessun controllo. Eppure in realtà è controllatissimo, è come se lei decidesse di utilizzare il corpo come una macchina proprio perché in lei si è sconnesso il sentimento del piacere, della gratificazione personale da quello del corpo. Infatti, non è banale l’associazione con l’anoressia, che è una delle malattie in cui l’edonismo, il piacere che dà il mangiare  è completamente bandito, colpevolizzato, allontanato. Anche Ida si autopunisce, lei non vive la sessualità come qualcosa di gioioso, anche nel rapporto con il marito dove si è incagliato il meccanismo del desiderio. È come se Ida relegasse l’amore a una sfera sempre più mentale, di protezione, quella che non ha avuto.

Stilisticamente ha scelto di raccontare il romanzo utilizzando la prima persona singolare, mentre in passato aveva optato per la terza persona, per quale motivo?

 La prima persona rifonda completamente il modo di scrivere, perché ti costringe ad aderire totalmente a una mente, a un pensiero, devi proprio sentire tutto e questo tutto deve passare attraverso quel personaggio. Non ti puoi muovere come un narratore onnisciente che sceglie di posizionarsi una volta da una parte e un’altra volta dall’altra, non puoi metterti davanti a due personaggi che parlano. Ida non può mai mettersi di fronte a due personaggi, è sempre attraverso di lei che arrivano le frasi degli altri, le parole. Sappiamo tutto da lei. Fino a quando non incontra Sara, perché poi  nel dialogo tra lei e Sara, almeno io l’ho costruito in questa maniera, volevo  che si vedesse uno sguardo su Ida differente rispetto a quello che sapevamo fino a quel momento. Fino a lì, noi conosciamo il suo mondo, quello che lei si racconta, ma non sappiamo come l’hanno vista gli altri. Quando Sara racconta l’episodio che le ha divise, dice anche quanto Ida sia stata egoista e quanto il suo dolore fosse egoista anche negli anni  precedenti.

Il dolore è egoista?

Ida è totalmente autocentrata. Il dolore è egoista quando c’è, il dolore non ammette sollievo, non trova nessun conforto. Soltanto dopo, a poco a poco, riesce a entrare in contatto con un altro dolore. Però dire che c’è subito sollievo nel sapere del dolore degli altri, è una falsità, perché quando il dolore arriva è qualcosa di fisico. Non c’è proprio spazio per gli altri. Ida è un personaggio per cui il giorno dopo la perdita dura ventitré anni.

In una recente intervista che ho fatto alla sua collega Sandra Petrignani ha detto: ‘’ Tutti gli scrittori hanno  paura di ammettere quanto di profondamente autobiografico c’è in tutto quello che scriviamo, io  direi che se non c’è non c’è neanche lo scrittore. Elsa Morante ha detto qualcosa di molto profondo sostenendo che tutto quello che scriviamo ci appartiene intimamente come nient’altro, come solo i sogni’’.  È d’accordo?

Non sono d’accordo sul fatto che noi scrittori abbiamo paura di ammetterlo, almeno io non ce l’ho. Al contrario, non soltanto non bisogna avere paura di riconoscere,  almeno con se stessi, l’autobiografismo, ma non sarebbe neanche interessante una narrativa non autobiografica. Nel senso che anche scrivendo una biografia di un personaggio storico, se io non divento totalmente quello che scrivo, non ho nessuna possibilità che quella cosa abbia  un appeal. Posso scegliere di avvicinarmi  totalmente a me stesso indossando un abito  che è quasi sovrapponibile, almeno in apparenza, come ho fatto io con  Ida, sempre tenendo presente che il margine di invenzione lo scelgo io e sarò io a sapere cosa c’è di vero, cosa di immaginato. Non vedo neanche come si potrebbe scrivere senza attingere da sé. Lo scrittore statunitense Jonathan Franzen alla domanda se la narrativa autobiografica  fosse infantile ha risposto: ‘’ Mi auguro di essere sempre più autobiografico crescendo. La vera maturità è proprio quella’’.

Nel suo romanzo ci sono dei veri e propri intermezzi onirici in cui Ida racconta i propri sogni, i ‘’notturni’’. Che cosa rappresentano?

I notturni, non in quell’ordine, sono largamente presi dai miei sogni nel corso degli anni, ci sono sogni anche di quando ero ragazzina. Mi è sembrato importante saccheggiare la mia vita onirica, perché è difficile da raccontare, se la si mette in ordine è noiosa. Il segreto per non annoiare è lasciarli disordinati, com’è il sogno, farli vedere in tutta la loro follia. Allora il sogno è realistico e uno lo riconosce.

Una frase chiave de  Gli anni al contrario era: ‘’I grandi non sono che bambini sopravvissuti’’. Addio Fantasmi è dedicato ai sopravvissuti. Che legame c’è, se c’è,  tra questi due romanzi e i loro sopravvissuti?

Non avevo fatto caso a quanto quella frase emblematica de Gli Anni al Contrario si avvicinasse alla dedica di Addio Fantasmi. Il tema dei sopravvissuti attraversa tutti i miei interessi letterari, e forse non soltanto, degli ultimi anni. Diventare adulti è sopravvivere all’infanzia, ma diventare adulti è sopravvivere sempre. Noi viviamo ed è un continuo apprendistato della perdita vivere, perché non facciamo altro che perdere oggetti, persone. Finché siamo vivi  vediamo comunque le persone  a cui vogliamo bene, che amiamo, non esserci più, le salutiamo perché muoiono prima di noi. Quindi sono molto interessata alla definizione di essere umano come sopravvivente.

Il suo incontro con Annie Ernaux che ricordo le ha lasciato?

 Quando è uscito Gli anni al contrario in francese ho chiesto al mio editore  di mandargliene una copia senza conoscerla di persona, perché avevo letto  tutti i suoi libri pubblicati in Italia e l’amavo molto.  Poi ci siamo incontrate,  abbiamo parlato tanto, di letteratura, del dire ‘’io’’, delle proprie famiglie.   È  una donna straordinaria sia come interlocutrice che come autrice. È la scrittrice che in questi tempi dicendo ‘’io’’  riesce a dire un ‘’noi’’ che è comunitario, universale, internazionale.

Perché Nadia Terranova scrive?

Dentro di me ho come un magma incandescente di emozioni, di vissuto, sono come quella pallina rovente dentro il petto di Ida, vivo così in larghissima parte. E forse scrivo per non impazzire, nel senso che  ho bisogno di scrivere per oggettivare, per mettere ordine. Del tutto non riesco, ma già scrivere, riuscire a dire alcune cose che mi sembrano indicibili, aiuta molto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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