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Emilio Notte e il Secondo Futurismo
Ceglie M. celebra la "Crocifissione"
di Gaetano di Thiène Scatigna Minghetti
Si torna a parlare di Emilio Notte, il pittore pugliese firmatario, nel 1917, con Lucio Venna del Manifesto del Secondo Futurismo, sulla Realtà geometrica. A suo nome articoli e saggi sulle riviste specializzate e anche un Concorso nazionale di pittura, , la cui quarta edizione si è conclusa proprio nel suo paese natio da poche settimane ed ha visto protagonisti sulla scena pittorica numerosi giovani artisti.
Il maestro Notte ha visto la luce a Ceglie Messapica, all’epoca in provincia di Lecce –la storica Terra d’Otranto-, il 30 gennaio del 1891.
Alla stregua dei nostoi della mitologia greca, che riconoscono nell’Odissea di Omero il proprio exemplum archetipico, patrimonio prezioso della civiltà e del pensiero dell’Occidente ellenico e latino e narrano del ritorno in patria degli eroi achei che, dopo dieci anni di sofferenze, combattimenti, imboscate, tensioni, erano riusciti a piegare Troia, il superbo Iliòn , anche per il maestro futurista Emilio Notte, al termine del tragitto terreno si è profilata all’orizzonte ultimo della vita la sagoma, ognora agognata, spesso anelata, sempre cercata, mai dimenticata, pur tra mille traversie e difficili episodi di vita, della personale sua Itaca, che possiede l’aspetto fascinatore di un’antichissima città della Magna Graecia, la messapica Ceglie.
Alla stregua stessa della foscoliana “petrosa Itaca”, paradigmatica ad essa, sempre ha giocato nell’esistenza, nei sentimenti, nell’arte di Emilio Notte –ma non solo di lui, in verità- un ruolo-cardine: con i suoi colori smaglianti, l’irsuto dialetto, l’originale architettura, gli ospitali abitatori, i suoi turgori e le sue atmosfere. Il suo sito –considera già nel XVII secolo l’oritano Domenico Tommaso Albanese, parlando di Ceglie- è molto aspro, e sassoso, sicche le pietre sono tanto abbondanti, che siccome nel diluvio universale cascorono copiosissime le acque dal Cielo, in questo luoco par che sia stato il diluvio delle pietre….
La famiglia Notte -annota Riccardo Notte in un suo saggio consegnato per le stampe nel 2010- soggiornò a Ceglie per alcuni anni: vi nacque anche il secondogenito, Luigi, che intraprese la carriera di musicista ma che morì a Firenze appena ventenne, di tubercolosi. Per il piccolo Emilio quel periodo fu decisivo. Ormai anziano, a chiunque gli domandasse delle sue origini ripeteva che il colore, l’atmosfera e l’idioma della prima infanzia gli erano rimasti come scolpiti nella mente e nei sensi e che, sebbene fosse veneto per antica famiglia e cultura d’origine, per il resto egli si sentiva cegliese sin nel midollo.
E’ un sortilegio strano, è la malìa del nostos quella che ogni cosa raggruma nella mente di ciascuno; che tutto rapprende nell’animo dell’uomo che avverte, così, intorno a sé, come un senso di vuoto, una sensazione di mondo rarefatto di sentimenti; di persone, che abbandonano il peso della materia per librarsi nella leggerezza dell’infinito che, solo, può dare un appagamento, una completezza perenne da sempre cercata, infine, trovata. Perché, è una considerazione diffusa, quasi banale, a volte, quella di sostenere come nel vissuto quotidiano degli uomini, di tutti gli uomini, verso il termine del percorso di vita, ci sia sempre un’ Itaca alla quale ciascuno desidera ritornare. Sia essa un’ Itaca materiale, concreta, sia essa metaforica, virtuale oppure, e meglio, spirituale.
E’ ciò che, sin dall’epoca più antica della civiltà occidentale, viene qualificato con il termine greco di nostos: nella tradizione classica ellenica il viaggio del ritorno in patria, piccola o grande che sia; ovvero, ad una situazione o stato di grazia pregresso o immaginato come tale, una sorta di età dell’oro, una specie di smarrito eden, del quale si rimpiange la perdita mentre, al tempo stesso, si vorrebbe che ciò di cui si è rimasti privi, sia scientemente che per vicissitudini esistenziali, indipendenti dalla propria volontà, venga ricomposto per pacificarsi con se stessi e la società, con il proprio mondo che formicola attorno, e la realtà con cui si vive in relazione, nell’ambito della quale si opera, di consueto.
Nel cristianesimo cattolico, religione eminentemente etica ed escatologica, il motivo del destino ultimo dell’uomo e del mondo -i “novissimi”, come vengono chiamati nella dottrina teologica della Chiesa di Roma- si configura come il ritorno alla patria celeste, alla casa del Padre dopo il pellegrinaggio sulla terra - alla stregua stessa dei perigliosi nostoi che i capi dell’esercito acheo affrontarono dopo la caduta di Troia-, qualificata come valle di pianto, terra di esilio; ritorno che viene continuamente riproposto e, perciò stesso, maggiormente sublimato per rendere meno traumatico il distacco dell’uomo dalla terra e dai beni materiali ai quali egli, per l’umana caducità della propria natura, si sente indissolubilmente legato.
Emilio Notte, durante la propria lunga, laboriosa vicenda, è stato protagonista di alterni eventi, spesso felici, a volte drammatici: mai scontati, però! Nato a Ceglie ma formatosi in Toscana –come argomenta Giuseppe Mazzarino- allievo di Fattori e di De Carolis, Notte entra subito in contatto con gli ambienti lacerbiani, anche se non lega molto con Soffici, e nel 1916 lo troviamo, sia pure in posizione minoritaria e distinta, nel gruppo dell’ “Italia Futurista”, la cosidetta “Pattuglia azzurra” che surrogò a Firenze la defezione di Papini, Soffici e Palazzeschi dal Futurismo e diede vita al “Secondo Futurismo fiorentino” (da non confondere col Secondo Futurismo “tout-court”, che parte dagli Anni Venti). Ha aderito a diverse correnti artistiche, talvolta in apparenza contrapposte, ma sempre con coerenza metodologica e onestà di intenti in un percorso intellettuale che non ha conosciuto interruzioni. Costantemente guidato, nelle molteplici stagioni dell’esistenza, da un filo conduttore comune, un sostrato culturale pieno ed articolato, che ha funto da elemento aggregante, unificante della propria arte pittorica!
E’ assurto ai vertici dell’esperienza artistica e didattica con la prestigiosa direzione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, città in cui è scomparso ultranovantenne nel 198. Ma non gli è venuto mai meno il virile sentimento del ritorno, il senso, scevro di piagnistei, della nostalgia nei confronti della città nella quale ha visto la luce, tra le cui mura ha trascorso i primissimi anni della vita, quelli fondamentali, quelli essenziali nella costruzione del carattere: insomma, quelli formativi della personalità di un uomo.
A questa sua Itaca -Ceglie Messapica, ora in Terra di Brindisi- ha voluto fare ritorno con il suo personale, intimo, concreto nostos quando ha inteso donare alla città natìa un nutrito corpus di suoi lavori –tra i quali un posto di primo piano è occupato dalla straordinaria “Crocifissione” del 1972 in cui risulta esaltato il mistero della passione e morte del Cristo mentre viene resa protagonista la marginalità sociale dei deboli, l’estromissione partecipativa degli ultimi che, a loro volta, stanno a significare, a testimoniare, altresì, scandendole, le tappe salienti del proprio itinerario artistico, cui è sotteso un umanissimo sostrato che ne forma, per così dire, la “tettonica” in una osmosi e in una sorta di continuo esorcismo per discacciarne i dèmoni che sempre si presentano a ciascun essere umano: un’ esistenza fragile, un’ esistenza esposta a ininterrotti marosi, ma, ciò nondimeno, affascinante; che, comunque, vale la pena di vivere per assaporarne appieno l’inebriante gusto.
Sembra che il Cristo in croce di Emilio Notte –come ho scritto in un’altra occasione- , pur nella martirizzata staticità del proprio corpo scarnito si voglia liberare dai legacci che lo costringono sul legno del Golgota in un inane ma sovraumano sforzo, per proiettare verso il divino la misera condizione dell’uomo, creatura che aspira senza intermissione all’infinito per respingere la pesantezza della sua sostanziale essenza di individuo fragile e caduco.
Il Cristo di Emilio Notte e l’uomo che Egli impersona -proseguo ancora nel mio intervento- sono prigionieri entrambi di uno stato non voluto né cercato e perciò da ribaltare, da annullare liberandosi dei vincoli che ne mortificano l’aspirazione costante all’indipendenza e alla libertà per librarsi nei cieli sconfinati, negli spazi siderei da cui contemplare, con glaciale indifferenza, il folle brulichio che diuturnamente assilla il mondo, che ogni giorno angustia la Terra. Quasi, leopardianamente, alla stregua stessa della luna, l’algida luna cui si rivolge il pastore che vaga nelle sconfinate plaghe dell’Asia, con le proprie incalzanti domande provocate dall’assillo che gli comprime il cuore, che gli obnubila la mente:
Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna.
…e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
E’ la conturbante malìa del nostos che ogni cosa pervade, che ogni fibra coinvolge, fin nelle più intime latèbre; è il sortilegio strano dell’insopprimibile, profetico desiderio del ritorno che ciascuno cattura con il proprio carisma.Come a suo tempo ha inteso fare il Maestro Emilio Notte con la sua tenera, splendente Itaca: Ceglie Messapica, seducente, fascinoso demo dell’alta Terra d’Otranto: una terra del silenzio che parla, però, al cuore; che dialoga con l’anima: in ogni momento, in ogni istante. Sempre!
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La “Crocifissione”è una delle opere donate nel 1976 da Emilio Notte alla sua città natale, Ceglie Messapica, ed è esposta nella galleria d'arte moderna che porta il suo nome