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Esteri
Strage di Deir Yassim e il genocidio. Gaza, due facce della stessa medaglia

Vogliono farci credere che il 7 ottobre giustifichi tutto. Non è così

 

La macchina della propaganda è una perfetta trita verità. La trasforma al punto da renderla più distillata dell’acqua dei ferri da stiro. Vapore senza principi. Liquido senza elementi. Entità senza volto. Ecco cosa è la propaganda.

Vogliono farci credere che il 7 ottobre giustifichi tutto. Non è così.

Il 7 ottobre non può e non deve essere analizzato estrapolandolo dal contesto che lo ha generato e partorito come fa la propaganda sionista. E non può essere veramente compreso se non tenendo conto che Hamas è una creatura di Israele, creatura mostruosa, sfuggita di mano quanto vi pare, ma pur sempre figlia delle luciferine macchinazioni dei governi israeliani. Ignorando questi elementi del presente osceno nel quale siamo stati scaraventati, si corre il grave rischio di cadere nella stessa trappola dentro la quale siamo imprigionati dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Perché quel che accade oggi con il 7 ottobre, è già accaduto con la Shoah, da allora strumentalizzata e usata come alibi per legittimare ogni sorta di crimini, illeciti e violazioni perpetrati dallo stato ebraico. A cominciare da quelli dei diritti umani dei palestinesi, violati ancora prima del 14 maggio 1948, giorno e anno in cui a Tel Aviv Ben Gurion dichiara in modo unilaterale l’esistenza di Israele.

 

È storia che la madre di tutte le stragi di palestinesi sia quella di Deir Yassin. Un piccolo villaggio alle porte di Gerusalemme dove all’alba del 9 aprile del 1948 squadre dell’Irgun e della banda Stern, in tutto 132 giovani e aitanti ragazzi e ragazze, massacrarono 250 civili, la maggior parte dei quali donne e bambini.

Il primo ad arrivare sul posto fu il rappresentante della Croce Rossa Internazionale, lo svizzero Jacques de Reynier. Quel che vide lo lasciò pietrificato. Fra tutti i cadaveri vi era «quello di una donna che doveva essere nell’ottavo mese di gravidanza. Aveva una ferita al ventre e tracce di bruciatura sul suo abito dimostravano che era stata uccisa a bruciapelo».

 

Benché su Google venga descritto come “romanzo”, Gerusalemme Gerusalemme, libro scritto da Domunique Lapierre e Larry Collins nel 1971, tradotto in Italia l’anno dopo, è in verità una dettagliata e imprescindibile ricostruzione storica e documentale che racconta, momento per momento, il processo che ha dato vita allo Stato di Israele. A pagina 247 della riedizione italiana del 1998, è riportata la testimonianza diretta di Eliyahu Arieli, veterano della Brigata Ebraica, giunto col suo gruppo della gioventù militare poche ore dopo il massacro di Deir Yassin. «I morti che vi abbiamo trovato erano tutte vittime innocenti. Non uno solo di essi è caduto con le armi in pugno». E sempre Arieli racconta che l’orrore era talmente insostenibile che proibì ai suoi giovani di entrare nel villaggio prima di aver, con altri ufficiali, sgomberato le vittime. Nel frattempo a Gerusalemme, sfilavano autocarri «su e giù per viale Re Giorgio V carichi di uomini, donne, bambini con le braccia alzate». Erano i sopravvissuti alla strage messi in mostra dalle bande assassine. Il giornalista ebreo Harry Levin rimase «colpito dalla loro espressione di terrore».

 

Terrore al quale oggi, come allora Israele ricorre per spaventare a morte i palestinesi che non riesce a uccidere. Un terrore, oggi come allora, funzionale a farli “esodare” da soli. Ad espellersi autonomamente fuori dalla loro terra, risparmiando a Israele il fastidio, la fatica e l’oltraggio di doverlo fare. L’obiettivo è sempre lo stesso: estirpare alla radice qualunque traccia del passato palestinese all’interno del suolo che Israele considera suo per diritto divino, dunque Striscia di Gaza e Cisgiordania, per ora.

La strage di Deir Yassin, il cui eco non ha smesso di riecheggiare fra le generazioni di palestinesi, grazie a un fatale errore di valutazione dei propagandisti arabi - che misero in circolazione tutti i macabri dettagli della strage con l’obiettivo di sensibilizzare gli stati arabi-, fu la miccia che invece diede inizio al tragico esodo palestinese. Un boomerang, in virtù del quale migliaia di persone in preda al panico fuggirono abbandonando la palestina.

Dopo la creazione dello stato di Israele furono oltre 700.000 mila i palestinesi costretti ad abbandonare i territori occupati da Israele nel corso della prima guerra arabo-israeliana. Molti di loro furono costretti a farlo sostenendo marce estenuanti nel deserto, sotto 40 gradi, senz’acqua e senza cibo. Marce non molto diverse a quelle della morte alle quali i molti dei fondatori dello stato di Israele erano sopravvissuti.

 

Quelle deportazioni di massa, unite alle concomitanti distruzioni di oltre 500 villaggi sparsi per la Palestina, spazzati via dalla cartina geografica insieme alla loro gente, storia, cultura, arte e memoria, nel mondo arabo e fra i palestinesi sono noti come al-Nakba, «la catastrofe». Una tragedia colossale che tuttavia, messa a confronto a quella in corso a Gaza, quasi scompare.

A Gaza non resta più nulla di quel che c’era. Tutto, proprio tutto è stato maciullato, spazzato via, cancellato dalla cartina geografica, come i 500 villaggi sui quali Israele piantò alberi per scongiurare la possibilità che anima viva potesse tornarvi. Siti archeologici, storia, cultura, biblioteche con codici miniati antichissimi, chiese del IV secolo, moschee del VII-VIII, tutto è stato ridotto in polvere.

 

Israele allora «impedì l’esercizio del diritto di rientrare, sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni unite, mentre i profughi venivano sistemati in campi gestiti dai Paesi arabi ospitanti e dalle organizzazioni internazionali». Nella Conferenza di Losanna (1949), Israele propose il rientro di 100.000 profughi, in cambio del riconoscimento arabo dei confini stabiliti dalla guerra. Gli Stati arabi avrebbero dovuto inoltre assorbire il resto dei palestinesi, ma la proposta fu respinta per ragioni morali e politiche, con l’eccezione parziale della Giordania. E al danno si aggiunse la beffa: ai profughi non fu riconosciuta la cittadinanza degli Stati nei quali si trovavano i campi.

La difesa del diritto al ritorno è da allora un punto fermo delle rivendicazioni politiche palestinesi nei colloqui di pace con Israele. Un diritto che dovrebbero avere anche i profughi di Gaza ma che non è scontato, dal momento che la Striscia è già stata divisa in due. Divisa da una autostrada che la taglia da est a ovest, dalla terra al mare, costruita in quattro e quattro otto mentre più a sud si spingeva alla disperazione un popolo di due milioni e mezzo di persone, costringendolo a deportarsi sui suoi stessi piedi non una ma cinque, dieci volte. Violando non una ma cinque dieci volte i principi fondamentali del Diritto internazionale umanitario e macchiandosi di plurimi crimini di guerra, in testa ai quali c’è la deportazione illegale e reiterata di civili e gli attacchi indiscriminati e deliberati alla popolazione civile.

La striscia di asfalto, visibile dai satelliti, è controllata dall’esercito israeliano che ha l’ordine di sparare a vista, a qualunque cosa si muova e cerchi di oltrepassarla da sud a nord. Cosa sarà della Striscia di Gaza quando Netanyahu avrà portato alla fine il lavoro, grazie al determinante aiuto di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania e il silenzio del restante mondo occidentale, è già scritto in quei dieci chilometri di asfalto. E negli accordi illegali e sconci, che Israele ha firmato sei mesi prima del 7 ottobre. Accordi stipulati per estrarre la gigantesca riserva di gas naturale scoperta di fronte a Gaza, proprio nella striscia di mare delimitata da quella lingua micidiale di bitume. Risorse non sue, come la terra di Gaza.

Come in tutte le storie che si rispettino, cercare il filoni dei soldi aiuta a comprendere i personaggi psicopatici che si agitano sulla scena.






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