Il Governo nega 145 milioni di euro a Milano, ma ne dà 1,3 miliardi a Napoli
Dopo i cigni neri della pandemia e della guerra in Ucraina, il premier Mario Draghi dovrà affrontare il tema del federalismo
Senza merito non ci sono progresso, uguaglianza e solidarietà
Da un lato, Giuseppe Sala, il sindaco di Milano – capitale economico-finanziaria e città più ricca d’Italia, senza dubbio per merito e volontà (tutta farina del proprio sacco, non soldi elargiti dall’alto, ossia dalle tasse pagate dai contribuenti); l’unica italiana dove da tutto il mondo le multinazionali vengono spontaneamente ad aprire uffici e i migliori giovani del Sud a lavorare –… ebbene Sala si lamenta con Roma (“Non ho fiducia in un Governo che non ascolta la città”) perché non può utilizzare da subito l’avanzo di bilancio dello scorso anno, circa 145 milioni, per evitare di tagliare i servizi ai cittadini.
Dall’altro lato, a fine marzo - notizia passata sotto silenzio dai media - è stato siglato dal presidente del Consiglio Mario Draghi e dal sindaco Gaetano Manfredi il “Patto per Napoli”, un accordo tra il Governo e il Comune partenopeo, secondo cui lo Stato verserà nelle casse di Palazzo San Giacomo circa 1 miliardo e 300 milioni spalmati in 20 anni. Ultimo caso di città, in particolare del Centro-Sud, da Roma a Catania, salvate dallo Stato, quindi dai contribuenti italiani. Per giunta, che cosa si è ricevuto in cambio? Alla luce del confronto con Berlino, Londra e Parigi, si accolga, per intenderci, una definizione di Roma, in voga nei frizzi e lazzi a base di alcol nei locali milanesi: “Roma… la capitale del terzo mondo”.
Un unico aggettivo viene in mente: semplicemente… ingiusto. È vero, in ciò che chiede Sala ci sono dei tecnicismi che congelano l’avanzo di bilancio e il sindaco del capoluogo lombardo si recherà presto a Roma a parlare col ministro del MEF Daniele Franco. È pure esatto, il salvataggio di Napoli è inquadrato nella prospettava di colmare il ritardo di alcune aree e città del Paese divenuto intollerabile. Tuttavia, il primo principio della democrazia è il merito (ossia per sineddoche l’individuo), presupposto senza il quale non ci sono uguaglianza (delle opportunità) e solidarietà. Senza merito non c’è progresso, coloro che dicono il contrario sono reazionari e conservatori.
In tale visione italiana, pesa in senso negativo la cultura cattolica per cui c’è sempre qualcuno che pensa a te, qualcuno che ti aiuta dall’alto… appunto lo Stato. Servirebbe invece quella concezione, per così dire capitalistico-ebraica, tipica degli Usa, in cui il successo è un valore morale, ben visto dal Creatore (per usare la terminologia appunto ebraica), che è indifferente alla pigrizia, alla mediocrità e all’inettitudine. Esprime una consapevolezza democratica della Repubblica italiana il fatto che la provincia di Napoli ha più persone che accedono al reddito di cittadinanza di Lombardia, Piemonte, Veneto, Trentino e Valle d’Aosta insieme?
Il federalismo – che include il federalismo fiscale pur nel contesto dell’unità e del principio di solidarietà nazionali e che è più difficile, complesso e “faticoso” da gestire rispetto a un approccio centralistico, ma ciò che è prezioso si ottiene con fatica - è uno dei punti essenziali del pensiero liberale. È inutile girarci intorno: col federalismo la democrazia è più democrazia. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ex presidente della Bce, colui che ha salvato l’euro (la sua frase “Whatever it takes” entrerà nei libri di storia) e ha serietà, competenze e autorevolezza riconosciute in tutto il mondo, è la persona migliore per guidare l’Italia, che ha affrontano il cigno nero della pandemia e ora si confronta con la guerra in Ucraina - supportato al MEF da un grande economista quale il ministro Daniele Franco - nondimeno ha finora espresso una visione centralista dello Stato, ma da vero democratico e liberale, quando le emergenze saranno terminate, potrà dedicarsi al federalismo, tema oggi non necessariamente prioritario.