Covid 19, interferone può proteggere dal virus: lo conferma studio dell'Iss
La stessa sostanza rilasciata nelle fasi iniziali della malattia potrebbe bloccarne la progressione
Covid-19, una ricerca dell'Istituto Superiore di Sanità conferma che l'interferone di tipo I può bloccare la progressione della malattia
Dall'Italia potrebbe arrivare una nuova arma nella lotta al Covid-19. L'interferone (IFN) di tipo I, rilasciato dalle cellule dendritiche plasmacitoidi (pDc) agli inizi dell'infezione da Coronavirus, pare susciti nell'organismo una risposta immunitaria tale da bloccare la progressione della malattia. La scoperta arriva dal lavoro congiunto di un team di ricercatori (Universita' San Raffaele di Milano, Policlinico di Tor Vergata, Universita' di Padova, Metabolic Fitness Association) coordinati dall'Istituto Superiore di Sanita' (ISS). Lo studio pubblicato su Plos Pathogens, analizza proprio i meccanismi delle risposte immunitarie innate nella patogenesi della Covid-19.
"Abbiamo studiato l'interazione precoce tra SARS-CoV-2 e le cellule del sistema immunitario in un modello sperimentale in vitro basato sulle cellule del sangue periferico umano - spiega Eliana Coccia dell'ISS, a capo dell'indagine - e abbiamo visto che anche in assenza di una replicazione virale produttiva, il virus promuove un importante rilascio di Ifn di tipo I e III e di citochine e chemochine infiammatorie (ovvero molecole che agiscono come mediatori dell'immunita' naturale e della risposta infiammatoria), note per contribuire alla tempesta di citochine osservata nella Covid-19".
Covid-19 e interferone: "Potrebbe portare a nuove terapie per la fase iniziale della malattia"
"E' stato interessante osservare che l'Ifn di tipo I, rilasciato dalle pDC, è in grado di stimolare la risposta antivirale nelle cellule epiteliali polmonari infette", aggiunge Coccia. A partire da queste evidenze in vitro, i ricercatori hanno caratterizzato il fenotipo delle pDC e l'equilibrio tra citochine antivirali e citochine pro-infiammatorie dei pazienti Covid-19 in base alla gravità della malattia. Hanno quindi osservato che l'espressione del marcatore PD-L1 sulla superficie delle pDC, così come la loro frequenza nel sangue periferico, presenta delle differenze se il paziente e' asintomatico o se manifesta una sintomatologia grave. "I soggetti asintomatici - va avanti Nicola Clementi dell'Università Vita-Salute San Raffaele - hanno in circolo pDC che rilasciano gli IFN di tipo I e questo dato si combina perfettamente con livelli sierici molto elevati di questi fattori e con l'induzione di geni anti-virali stimolati dallo stesso IFN. Al contrario, i pazienti ospedalizzati con Covid-19 grave mostrano una frequenza molto bassa di pDC circolanti con un fenotipo infiammatorio e alti livelli di chemochine e citochine pro-infiammatorie nel siero".
"Il nostro studio - concludono gli autori - conferma il ruolo cruciale e protettivo nella malattia da Covid-19 dell'asse pDC/Ifn di tipo I, la cui maggiore comprensione puo' contribuire allo sviluppo di nuove strategie farmacologiche e/o di terapie volte a potenziare la risposta delle pDC fin dalle prime fasi dell'infezione da Sars-CoV-2". I risultati ottenuti in questo studio sono stati raggiunti grazie alla stretta collaborazione tra ricercatori e clinici come di seguito specificato: Dipartimento di Malattie Infettive, Istituto Superiore di Sanita' (Roma) Eliana M Coccia, Marilena P. Etna, Stefano Fiore, Daniela Ricci, Fabiana Rizzo, Martina Severa, Paola Stefanelli; Clinica di Malattie Infettive, Policlinico Tor Vergata (Roma) Massimo Andreoni, Marco Iannetta, Alessandra Lodi; Dipartimento di Medicina Molecolare, Universita' di Padova (Padova) Luisa Barzon, Alessandro Sinigaglia; Laboratorio di Microbiologia e Virologia, Universita' Vita-Salute San Raffaele (Milano); Massimo Clementi, Nicola Clementi, Elena Criscuolo, Roberta Diotti, Nicasio Mancini; Associazione Fitness Metabolica (Monterotondo) Stefano Balducci.