Francesco Moser, dal record mondiale a Città del Messico al Trento doc

Il campione, oggi imprenditore di qualità nel campo dei vini, si racconta in una esclusiva intervista

di Mirko Crocoli
Costume
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Francesco Moser si racconta ad Affaritaliani.it

“Le mie prime pedalate quando Armstrong scese sulla Luna”

I ricordi con Eddy Merckx e Saronni…. e sui vini…:Trentodoc, Rosé, Moscato Giallo…che soddisfazioni. Ma non siamo la bella Toscana, qui dobbiamo farci conoscere!”

“Il mio maso è casa-museo con bici, maglie, trofei ma anche sala degustazione per gli ospiti”

Francesco Moser, nato a Palu’ di Giovo (Provincia Autonoma di Trento) il 19 giugno 1951, è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi campioni nella lunga e gloriosa storia del ciclismo internazionale. Il corridore più forte ed incisivo del ventennio ’70-’80, detentore del record assoluto di vittorie su strada a livello italiano (273) e tra i primi tre al mondo, secondo solo a Merckx e Van Looy.

Combattivo, temerario, imprendibile, soprannominato “lo Sceriffo” per il suo carattere autorevole, Moser risultava privo di antagonisti nelle prove di un giorno. Esperto passista, inizia la carriera da professionista nel 1973 per poi terminarla nel 1988, dopo oltre tre lustri trascorsi in vetta alle classifiche. E’ tra i pochi che hanno indossato più a lungo la maglia rosa e colui che ha vinto – tra gli altri (e non solo) – il Giro d’Italia, la Parigi-Roubaix, due giri di Lombardia, la Freccia Vallone, la Gand-Wevelgen, la Milano-Sanremo, cinque volte il prestigioso Trofeo Baracchi, un Campionato del Mondo su strada e uno su pista nell’inseguimento individuale.


 

Si è inoltre aggiudicato il record dell’Ora a Città del Messico il 23 gennaio ’84 con il ragguardevole tempo di 51.151, surclassando i suoi diretti competitor, in barba anche al “Cannibale” Eddy Merckx, al quale, 9 stagioni prima, nel 1975, tolse persino la maglia gialla e – doppio smacco – a Charleroi, in Belgio, tra le sue “mura” domestiche!   

Fu protagonista assieme a Giuseppe Saronni della seconda appassionante rivalità dopo quella tra Fausto Coppi e Gino Bartali che ha diviso i fan di tutta Europa. Oggi, il noto ex ciclista trentino, soffiate le 70 candeline nel giugno scorso - e mai (nel cuore) veramente appese al chiodo “bici” e “scarpini”, produce vini importanti in Val di Cembra, unitamente ai suoi figli Francesca, Carlo e Ignazio. Il nipote Matteo è l’enologo dell’ “Azienda Agricola Moser” che sforna, ogni anno, 150 mila bottiglie pregiate, tra queste i rinomati Spumanti “Trentodoc”, il “Rosè” di Pinot Nero e il “Brut Nature”, ma anche i bianchi fermi quali il noto Müller Thurgau”, il “Riesling” e - cavallo di battaglia indiscusso – il “Moscato Giallo”. Tra i rossi sicuramente il più rilevante della sua Regione: il “Teroldego”.


 

Dalle due ruote ai vigneti, dai premi e le coppe ai “grappoli” e alla cura dei millesimati; una vita intensissima quella di Francesco, il quale si è voluto qui raccontare, con dovizia di particolari, in un full immersion all’interno della sua suggestiva tenuta, il “buen retiro del Capitano”, che è sia casa-museo (tra cimeli e ricordi) sia impresa vitivinicola (con tanto di ospitalità agrituristica) incastonata in un idilliaco paesaggio, i cui sapori e la cui energia si respirano in ogni angolo della terra.

Francesco Moser, una vita per il ciclismo, giacché parte dalla famiglia già lo praticava.

Sì, i miei fratelli Aldo ed Enzo. Aldo ha cominciato a correre l’anno in cui sono nato, il 1951. Io ho iniziato a 18 anni, nel ’69 e proprio la settimana dello sbarco sulla Luna. Quando, poco tempo fa, hanno ricordato Tito Stagno la mente è andata inevitabilmente ai quei frangenti. Poi nel 1973 sono passato professionista. Prima allievi, tre anni dilettanti di terza e, a seguire, in Toscana, la cosiddetta svolta con la “Bottegone”.

E poi arrivano i grandi successi…

I primi due anni debbo essere sincero non molti. Le vere soddisfazioni giungono dal 1975 in poi. Nel ‘76 ho vinto il Campionato Mondiale su pista e nel ‘77 quello su strada. Si aggiunsero, nel 1984, il record dell’Ora, la maglia rosa, la Milano-Sanremo e via discorrendo.

Rammemoriamolo dunque quel 1984. Annata storica?

Iniziò a fine 83, avevo già 32 anni, non proprio un ragazzino. Ci sono tanti corridori che hanno smesso a quella età, a partire da Eddy Merckx. Ad onor del vero nel 1983 non avevo avuto un grande rendimento, ma quelli della “Also Enervit” mi chiesero se volevo tentare il record dell’ora. Mi avrebbero supportato in tutto e per tutto. Dopo un attenta programmazione ci siamo dedicati agli allenamenti, ai preparativi e alla bici, mettendola a punto, portandola quasi alla perfezione, e ciò in cui credevamo si è poi materializzato a Città del Messico con il tempo di 51.151. Un grande traguardo.  


 

E la maglia rosa? Come ha vissuto l’altro suo momento clou della carriera?

Emotivamente da non dimenticare mai! E’ una maglia che ho indossato tante volte, forse uno dei ciclisti che l’ha portata maggiormente. Tre secondi posti al giro e poi, sempre nel 1984, fino in fondo. Ma ci sono state anche la Milano-Sanremo e il Trofeo Baracchi a Trento. Quest’ultimo l’ho vinto 5 volte e sempre con compagni diversi. Parliamo di 100 km a cronometro, tutt’altro che semplice, mi creda.  

La sua specialità?

Ero un passista. Andavo sia a cronometro sia in volata, anche se in quest’ultima specialità non ero concentratissimo. Sulle volate mi perdevo un po’.  

Lo “Sceriffo” giusto? Perché?

Lo sceriffo sia per l’età (cominciavo ad essere tra i più anziani del gruppo) e sia per tenere a bada certe situazioni, talvolta delicate. E’ un mondo ove determinate circostanze umane non mancano; dalle proteste ai malumori, dagli attriti personali all’eccessiva smania di prevaricare. La competizione è spinta ai massimi livelli. Necessario che qualcuno facesse il Capitano, ruolo in cui ero abituato da tempo.


 

Ma andiamo al “duello” con Giuseppe Saronni, alla stregua di quello tra Coppi e Bartali. Ci racconti.  

E’ stato l’ultimo dualismo importante nella storia del ciclismo. Adesso le rivalità (come le nostre) non vengono più focalizzate, perché in realtà non ci sono più. E’ cambiato tutto! Prima c’era stato tra Binda e Guerra, Bartali e Coppi, Gimondi e Motta. Saronni ha sei anni meno di me, giustamente cercava di battermi. All’epoca ero lo sfidante numero uno. Non le nascondo che tra noi c’era un abisso. Non c’è stato mai verso di andare d’accordo, troppo diversi. Agli antipodi sia come corridori sia come caratteri. Ci trovavamo ovviamente nelle varie corse, ma sempre ognuno al posto suo.

Come muta il ciclismo di oggi rispetto alla sua epoca?

Oggi la politica delle squadre è variata considerevolmente. I corridori vengono comandati dall’ammiraglia con le radio e devono fare quel che gli suggeriscono i direttori sportivi. Pagano bene, anche i gregari, ma guai se non fanno quello che gli si ordina. Noi eravamo diversi, decidevamo in corsa, seduta stante, in totale autonomia, padroni di noi stessi, non aspettavamo l’ammiraglia. Non c’erano radio o altro, magari quando si andava in fuga e arrivava l’auto la corsa era già decisa. Per non parlare della tecnologia, dell’abbigliamento, del tipo di bicicletta. Oggi il professionista ha tutto quello che gli serve. Mi ricordo i primi anni nostri, andavamo a correre con il freddo polare e con poca roba indosso. Nevicava, acqua tutto il giorno, tempo pessimo, un vero disastro. Il freddo entrava nelle ossa. Nel 1975, quando ho vinto il giro di Lombardia, è piovuto una giornata interna, a 10 gradi con continue salite e discese. Siamo arrivati stremati, non riuscivamo a stare in piedi. Ma anche in Belgio con la neve, piuttosto che nella Parigi-Roubaix o nella Tirreno Adriatico. Nevischio, sferzate di vento, acqua a catinelle. Un inferno. E poi, tanto per rendere più complicata la questione, avevamo pure le maglie di lana che si inzuppavano e si allungavano quasi fino alle ruote.

E poi c’è Eddy Merckx …  

Già. Nel 1975 l’ho battuto in Belgio, era maglia gialla e in casa sua, a Charleroi. Diciamo che quello è stato l’ultimo suo anno, dopo è andato in calo come rendimento o, perlomeno, meno accettabile rispetto ai suoi soliti incredibili standard.

Lei Moser si è mai ispirato a qualcuno del passato?

Sia Coppi cha Bartali non li ho visti gareggiare. A intuito forse sarei stato Bartaliano, tra i tifosi, mettiamola così. Perché era il Direttore Sportivo di Aldo ed Enzo al Team San Pellegrino. Venne a casa nostra due o tre volte. Nel 1960 quando Coppi morì Gino doveva adempiere a quel ruolo nella S. Pellegrino. Ripeto, Coppi e Bartali non li ho potuti valutare in “presa diretta” per una questione anagrafica, ma se proprio devo fare un nome più che altro mi ispiravo forse a Merckx che, logicamente, oltre ad essere mio contemporaneo cercavo anche di avere la meglio su di lui, come poi è accaduto in alcune competizioni ufficiali.


 

Quando inizia il Moser imprenditore nel settore vitivinicolo?

Nel 1975 abbiamo deciso di imbottigliare il nostro vino. Ho sempre collaborato da decenni con mio fratello, poi ci siamo ingranditi nell’anno che ho smesso. Capitò l’occasione di acquistare altra terra e il maso in cui viviamo, ove si erge la cantina, alle porte di Trento.

Figli e nipote in azienda?

Sì, ho tre figli, Francesca, Carlo ed Ignazio. Matteo, mio nipote, è il nostro enologo ufficiale. Collaborano tutti a vario titolo, prima Francesca, ultimamente più Carlo. Ignazio invece ha corso nei dilettanti, è stato campione d’Italia, poi si è stufato. Aveva la stoffa e le caratteristiche per diventare un buon corridore. Non un fuori classe, ma sicuramente bravo. Tuttavia ci vogliono sia sacrificio che perseveranza. Talvolta bisogna lasciar perdere tutto il resto e mai arrendersi alle prime difficoltà. Altra generazione rispetto alla nostra, ma il mondo va avanti.

Un modo anche di incontrare persone?

Certo. Facciamo fiere, meeting, rassegne di settore. Ci vengono a trovare molti ospiti, per via sia del museo installato all’interno della struttura, con le bici le maglie e i trofei e sia per la visita alla cantina dove è possibile degustare ed acquistare i nostri prodotti. Con gli anni ci siamo fatti un nome cercando di migliorarci sempre di più, anche grazie ai riconoscimenti di un comparto molto competitivo, ma che non sono tardati ad arrivare.  


 

Solo Italia o anche estero? Esportate molto?

Vendiamo di più in Italia. Il vino del Trentino non è molto conosciuto all’estero. Fuori confine sono assai noti i vini toscani, piemontesi e siciliani, meno i trentini. Dobbiamo farci conoscere. Comunque non demordo, sono stato in Belgio, in Francia, in Germania, anche negli Stati Uniti. Esportiamo ma in percentuale ridotta. Certo, se fossimo a Montalcino sarebbe tutta un’altra storia. Vado spesso a trovare i colleghi in Toscana, nelle Marche, in Abruzzo o in Sardegna e so bene come funzionano le varie realtà territoriali.

I vostri due o tre prodotti di punta?

Lo Spumante “Trentodoc”. Il 51,151 lo abbiamo concepito quando ho fatto il record dell’Ora il 23 gennaio 1984: 51 km 151 metri. Poi – dal 1984 – il “Rosé” con uve Pinot Nero e Chardonnay, il “Brut Nature” ancora più secco con il quale abbiamo vinto i Tre Bicchieri. Ma anche i vini bianchi fermi, tipo il “Müller Thurgau”, il “Riesling”, il “Moscato Giallo” (che ci ha dato tante soddisfazioni) e - sui neri - il “Lagrein” e il “Teroldego”, uno dei rossi più importanti del Trentino.

Chi sono i vostri clienti? Ci parla della produzione?

Ristoranti, enoteche, ma anche privati. Pensi che ogni anno lo finiamo sempre in anticipo. Stiamo aspettando di imbottigliare quello nuovo. Navighiamo attorno alle 150 mila bottiglie a stagione. Abbiamo venduto il vino sia quest’anno che l’anno scorso già per Natale. I primi di marzo imbottigliamo il nuovo perché prima va filtrato, raffreddato, operazioni delicate. Fine Aprile è il turno dello spumante, senza dubbio il nostro valore aggiunto! Da sottolineare che lo spumante va tenuto fermo dai 2 ai 6 anni. Ci vuole cura e un’attenzione particolare.

Come è strutturata l’azienda?

Da noi si chiama “maso”, una casa nella campagna. Ne abbiamo quattro, ristrutturate e rese perfette anche come appartamenti in Agriturismo per i soggiorni. In totale ci sviluppiamo su circa 15/16 ettari di nostra proprietà, poi comperiamo altra uva dalle terre confinanti e la vinifichiamo. Il prodotto è identico al nostro. Ora c’è un vigneto nuovo. Non produciamo tantissime bottiglie, ma quelle che facciamo sono un prodotto di qualità e nicchia, appoggiandoci ad una rete commerciale estremamente capillare.


 

Qualche news ancora top secret?

La Bici elettrica con il mio nome! Un progetto che vedrà la luce nel marzo prossimo. D’altronde il mio vecchio amore per la “sella” non mi lascerà mai, anche perché, oltre ai vini e all’azienda ho sempre partecipato in prima linea al Giro d’Italia. Da vent’anni sono testimonial della Mediolanum. Poche settimane fa ero al Teatro degli Arcimboldi di Milano per la presentazione della Maglia Azzurra e la celebrazione del ventennio di partnership tra “Giro d’Italia” e l’omonima Banca meneghina. Si è ricordata sul palco anche la figura di Ennio Doris. Come potrà capire non me lo sono perso uno di “Giro”, né da ciclista e protagonista né tantomeno da osservatore.

Complimenti e buona fortuna per tutto Moser.

Grazie, Ad Maiora!