Giulia Tramontano uccisa dal fidanzato, errore chiamarlo mostro: ecco perché
Ragazza uccisa a Senago (Milano) dal ragazzo: definirlo “mostro” rappresenta una sorta di giustificazione, ossia pone un muro tra noi, e lui
Giulia Tramontano, il caso della ragazza trovata morta a Milano e il compagno killer
Ciò che in tanti temevano è accaduto. Il corpo di Giulia Tramontano, la ventinovenne incinta al settimo mese scomparsa nella notte tra sabato e domenica scorso, è stato trovato in una intercapedine, dopo la confessione di omicidio da parte del compagno Alessandro Impagnatiello. La coppia, la sera della morte della ragazza, aveva aspramente litigato, poiché Giulia aveva scoperto che lui l’aveva tradita, e che la sua amante era rimasta incinta.
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Decisive sono state le tracce biologiche, tra cui sangue, trovate nella casa abitata dalla coppia e sulla macchina del presunto assassino, il quale avrebbe provato a pulire i residui all’interno dell’appartamento e nella sua auto, ma invano, poiché i RIS hanno facilmente rilevato copiose tracce biologiche ascrivibili alla vittima, che hanno portato a indagare Impagnatiello per omicidio volontario. Evidentemente sotto scacco, il giovane ha confessato il fatto, atroce oltre ogni più macabra immaginazione: l’assassinio della compagna incinta al settimo mese di gravidanza.
Ora è in stato di fermo, con l’imputazione di omicidio aggravato anche dalla premeditazione, interruzione volontaria di gravidanza senza il consenso della vittima, e occultamento di cadavere, anche se, in realtà, uccidere un feto al settimo mese equivale, più scientificamente che giuridicamente, a uccidere un essere umano, poiché a sette mesi un feto è già in grado di sopravvivere.
Come avrebbe ucciso, Impagnatiello? Con due coltellate, e da lì le ingenti tracce di sangue trovate. E poi, i due tentativi mal riusciti di dare fuoco al cadavere, alla fine nascosto in una zona semi abbandonata.
Viene spontaneo definire mostruoso un atto del genere, e viene spontaneo definire mostro chi lo compie. Eppure, così non è. Chi usa una tale efferata violenza, considerando la chi si diceva di amare e da cui si era amati come un semplice oggetto diventato ostacolo, non è un mostro.
È una persona incapace di relazionarsi con il prossimo in modo paritario, di considerare il partner come qualcuno da amare e non come un oggetto da possedere, ed è capace di premeditare, senza alcun ripensamento, il peggiore di delitti, ossia l’assassinio della donna che porta in grembo il proprio figlio. Definirlo “mostro” rappresenta una sorta di giustificazione, ossia pone un muro tra noi, e lui.
Come se il mostro fosse qualcosa di altro, qualcuno lontano da noi, che non potrebbe mai far parte del nostro mondo e del modo in cui lo concepiamo. E invece così non è. La vita di questa giovane coppia, lui barman di successo, lei agente immobiliare, nessun precedente penale, nessun disagio familiare pregresso, rende lui, il presunto assassino, uno qualunque. Uno di noi. Esce la mostruosità dell’uomo, in certi delitti. Ma quella mostruosità è latente anche nelle persone più integrate, con elevata reputazione sociale e professionale, e prevarica quando il narcisismo e la mania di controllo che stanno alla base della propria vita prendono il sopravvento, al punto da considerare come unica via d’uscita l’eliminazione, anche fisica, dell’altro.
Non esistono giustificazioni per questi reati, ma esistono spiegazioni che devono essere indagate, per evitare che ne siano commessi altri. Nel frattempo, il colpevole, se condannato, è destinato alla pena massima prevista dal nostro ordinamento, ossia l’ergastolo. E questo, anche grazie alla battaglia che mi pregio di aver portato avanti con l’Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, e diretta a vietare il rito abbreviato e i conseguenti sconti automatici di un terzo ai delitti più efferati. È una goccia nel mare, ma è una goccia di buon senso e di giustizia. Per Giulia che non c’è più, e per chi la piangerà, nell’ergastolo del suo dolore.
*Avvocato e Presidente Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime