Prove Invalsi, che disastro: la scuola non insegna più niente e promuove tutti

La scuola italiana ai ragazzi non insegna nemmeno a tenere la penna in mano e scrivere in italiano: tempo sprecato, spese ingenti e risultati inefficienti

L'opinione di Gianni Pardo
Cronache
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I risultati dei test Invalsi rivelano ciò che, più che prevedibile, era sicuro: due anni di “fermo” della scuola hanno prodotto risultati disastrosi. I “maturi” di quest’anno pare abbiano il bagaglio culturale della Terza Media. E spero di una Terza Media europea, perché la nostra ha un bagaglio culturale inferiore a quello che una volta si aveva alla licenza elementare.

Constatazione desolata. Ma, dirà qualcuno, si potevano bocciare tutti gli studenti, soltanto perché lo Stato gli ha impedito di andare a scuola? L’obiezione è di peso, e tuttavia ha un grosso neo.

Se la bocciatura corrisponde ad un biasimo morale, i ragazzi non si possono bocciare. Ma se la promozione corrisponde all’acquisto del bagaglio culturale di un anno, e loro non l’hanno acquisito, si possono promuovere? La bilancia misura il peso o il valore morale?

È meglio che i ragazzi arrivino alla maturità con due anni di ritardo, ma essendo stati altri due anni in classe, o è meglio dargli un diploma fasullo, con carenze formative che non ricupereranno mai più? Meglio un ritardo nel diploma o meglio un diploma che certifica conoscenze che non ci sono? Questo non è un ulteriore passo nella direzione dell’abolizione del valore legale dei titoli di studio?

L’Italia, da decenni, si affanna per rendere comoda e facile la frequenza della scuola, con la bocciatura normalmente come ipotesi remota e, nel caso dell’ex esame di maturità, come ipotesi irreale. Poi abbiamo anche la laurea in tre anni, e con questo abbiamo molti laureati? Assolutamente no, abbiamo una delle percentuali più basse d’Europa. E questo perché? A mio parere perché una laurea svalutata non dà lavoro. E allora perché perdere tempo all’università?

La scuola italiana, nel nobile intento di non dare fastidio ai ragazzi, non gli insegna nemmeno a tenere la penna in mano (e alcuni, perfino professionisti affermati, la tengono poi in maniera addirittura comica). Non insegna più calligrafia, e passi, ma ai ragazzi non si richiede nemmeno di scrivere in modo comprensibile o di far caso al fatto che il numero “9” ha l’occhiello a sinistra, e non a destra. Non insegna quasi niente e comunque promuove quasi tutti. Tempo sprecato, spese ingenti, risultati insufficienti.

Forse tutto dipende da due errori fondamentali: il velleitarismo e il buonismo.

La prima volta, leggendo i programmi per la scuola media, poco c’è mandato morissi dalle risate. Per essa, non so più se al secondo o al terzo anno, il professore di lingua straniera è invitato ad “aprire il dialogo in lingua a nuovi argomenti”. Come se già questo dialogo ci fosse stato. Come se i ragazzi capissero il tedesco o l’inglese, e come se il docente di lingue fosse in grado di parlare la lingua che insegna. Non soltanto questo è impossibile qui, è anche impossibile al Liceo Scientifico. Se i professori di questo corso fossero in grado di svolgere i programmi, bisognerebbe pagarli il quintuplo. Se i ragazzi fossero capaci di imparare ciò che è previsto, all’uscita dal liceo avrebbero diritto ad entrare all’Accademia dei Lincei.

Ancora per le lingue straniere, i programmi ministeriali si esprimono – sempre e costantemente – come se tutti i professori conoscessero la lingua straniera che dovrebbero insegnare. E ciò invece è vero soltanto eccezionalmente. I professori che conoscono la lingua che insegnano la conoscono il più delle volte per motivi diversi dall’aver frequentato l’università. Avevo un collega nato a Omaha, Nebraska, che conosceva effettivamente l’americano. Un altro era stato prigioniero in India, ed aveva avuto una buona occasione per imparare l’inglese. Un’altra l’inglese o parlava benissimo, perché era irlandese, sposata con un italiano. E poi c’era lo sparuto gruppetto dei maniaci delle lingue.

Comunque nessuno di questi campioni, che io sappia, ha mai insegnato in inglese. Io stesso, entrato per una supplenza in una quinta, e avendo parlato in inglese, sono stato guardato come un marziano e cortesemente pregato di smettere. E quella era la classe dell’ex prigioniero in India.

Insomma la realtà a un eccesso di pretese risponde con un eccesso d’ignoranza. Tutte le riforme sono state in senso “buonistico” e il risultato è la superficialità nelle nozioni e nell’uso della lingua italiana. La cultura è come appannata, orecchiata, impiallacciata. Basti vedere l’uso di “piuttosto”, di” paventare”, della confusione fra verbi riflessivi e no, e mille altri orrori.

D’accordo, la scuola dei miei tempi era dura e forse perfino un po’ crudele, ma oggi, secondo i test internazionali, credo siamo al penultimo posto in Europa. Come metterci rimedio?

In primo luogo dovremmo ammettere che un giovane che ama lo studio è anormale e andrebbe curato. Un giovane sano deve amare lo sport e le ragazze, e studiare per paura della punizione, del disprezzo degli altri, della bocciatura. La scuola non è una cosa bellissima, e non diteglielo, perché non vi crederanno. Bisognerebbe dirgli: “Da qui non uscirai con un diploma se, scrivendo, farai errori di italiano”. E già se questo principio fosse applicato, sai che moria, fino al cambio di mentalità.

I competenti (post-sessantottini) dicono che la bocciatura non risolve niente. Ed hanno ragione, se si incomincia in terza superiore. Se un ragazzo non ha mai studiato seriamente ed è arrivato al terzo anno del liceo scientifico, volete che cominci a prendere sul serio le minacce, dopo undici anni di baggianate, conclusesi regolarmente con la promozione? Bisognerebbe invece smetterla con la stupidaggine che alle elementari è vietato bocciare. Prima si crea nei bambini l’imprinting che nessuno mai ripete la classe, e poi glielo si vuole insegnare quando sono adolescenti?

Ai miei tempi per passare da un corso all’altro si affrontavano esami in terza elementare, in quinta elementare, in terza media, in quinta ginnasiale e in terza liceo. E il risultato era che ragazzi che venivano dalla provincia, figli di analfabeti, avevano una preparazione di tutto rispetto. Oggi in televisione l’italiano sembra una lingua straniera, appena orecchiata.

La scuola depreda i ragazzi sia della libertà di passare la giornata divertendosi, sia della cultura che un tempo dava ai loro bisnonni.