Strage Erba, "prove distrutte e dettagli trascurati" tra droga e 'ndrangheta

"Aporie" nella conduzione delle indagini e nelle prove raccolte: tutti gli elementi che non quadrano nel libro-inchiesta di Edoardo Montolli. Intervista

di Eleonora Perego
Olindo Romano e Rosa Bazzi
Cronache

Strage di Erba, "prove distrutte e dettagli trascurati" tra droga e 'ndrangheta. Su Affari parla l'autore del libro inchiesta

La revisione del processo sulla strage di Erba ha assunto i connotati di una possibilità sempre più concreta, dopo l’ammissione dell’istanza presentata dal sostituto procuratore della Corte d’Appello di Milano Cuno Tarrfusser. Tante le “aporie” evidenziate nella conduzione delle indagini e nelle prove che hanno portato alla condanna di Olindo Romano e Rosa Bazzi. Tante le domande ancora senza risposta, come quelle poste nell’ultimo libro inchiesta di Edoardo Montolli e Felice Manti, del quale su Affaritaliani.it abbiamo riportato alcuni passi salienti.

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E proprio in relazione ad alcuni dei capitoli più interessanti, che mettono in luce una ritrosia del servizio pubblico alla messa in onda di servizi sulla strage di Erba, la pista poco battuta della droga e una trascuratezza nelle indagini sulle intercettazioni telefoniche tra i due coniugi, Affari ha raggiunto il giornalista Edoardo Montolli.

Lei scrive di una mancata messa in onda su “Chi l’ha visto?” di un servizio su Erba. Siete riusciti a risalire a chi e perchè questa sia stata bloccata?

No, ma non abbiamo nemmeno cercato di farlo. Fu la trasmissione all'inizio del 2011 a chiedermi un’intervista di diverse ore che realizzammo a Milano nell’ufficio dell’avvocato Fabio Schembri. Poi non fu mandato in onda nulla. “Chi l’ha visto?” realizzò una sola puntata di ricostruzione, che fece scalpore. E si fermò improvvisamente. La mia intervista non fu mai trasmessa, così come le altre puntate che ci avevano annunciato. Giunse quindi la sentenza di Cassazione che confermò l’ergastolo.

Poco tempo dopo, nel corso di una puntata estiva di Porta a Porta del 2011, accadde esattamente quanto riportiamo nel volume. La trascrizione delle parole di Pino Rinaldi, autore storico del programma, è letterale. Così come lo è quella delle dichiarazioni che l’ex inviato di punta del programma, Gianloreto Carbone, ha rilasciato a Giulio Cainarca, direttore di Radio Libertà. Dice che aveva due puntate pronte e stava preparando la terza di quattro, ma non andò in onda più nulla.

Perchè pensa che sia arrivato un diktat in questo senso? A leggere il capitolo pare una cospirazione…

Ribadisco quanto sopra. Io non posso che prendere atto delle parole di Rinaldi e Carbone, che del programma non erano due comparse, ma elementi di spicco. La domanda andrebbe posta a loro.

“Erba, crocevia della droga”. C’erano tutti gli elementi per battere anche questa pista, visto che la famiglia di Azouz era attenzionata in merito. Perchè non si è indagato?

Non sono nella testa degli investigatori. Noi scriviamo che certamente le indagini furono svolte a senso unico nei confronti della coppia. E questo lo si evince dagli atti. Non c’è ad esempio alcun approfondimento sulle liti in carcere di Azouz per quanto ci fossero grandi discrasie sul movente delle liti e per quanto risultasse che Raffaella Castagna fosse stata minacciata. Il materiale sequestrato la notte della strage in casa dei parenti di Azouz non fu mai analizzato dal Ris.

E ancora: le sommarie informazoni del testimone oculare Ben Brahim Chencoum del 25 dicembre 2006, furono tenute a Erba per venti giorni, nonostante a quella data non ci fossero indagati e nonostante questi raccontasse con dovizia di particolari tutt’altra dinamica della strage. Peraltro la casa di Raffaella era monitorata già prima della strage dalla guardia di finanza per un’inchiesta sul traffico di droga che vedrà poi finire in carcere Azouz e altri due tunisini che risultavano essere residenti proprio lì. Ma la difesa di Olindo e Rosa non è riuscita mai ad entrare in possesso delle intercettazioni e degli atti di quel processo per droga nonostante le reiterate richieste.

Il fatto, giuridicamente meno comprensibile, è che di quelle intercettazioni non è riuscito a entrare in possesso neanche uno degli imputati che in quel processo per droga fu condannato e che anni dopo ne fece richiesta. Mi riferisco ad Abdi Kais, all’epoca residente nell’appartamento di Raffaella Castagna e oggi chiamato dalla difesa di Olindo e Rosa come nuovo testimone. Due fatti sono comunque certi. Il primo: il racconto di Chencoum e quello di un dirimpettaio di Raffaella Castagna, il signor Fabrizio Manzeni, che parlavano di extracomunitari fuori dalla corte di via Diaz, si incrociavano perfettamente con il primo ricordo di Mario Frigerio, che aveva riconosciuto come suo aggressore un uomo olivastro.

Il secondo fatto certo è che il 20 dicembre 2006, quando il comandante dei carabinieri di Erba Luciano Gallorini andò a parlare con Frigerio, contro Olindo e Rosa non c’era assolutamente nulla, dato che cinque giorni dopo la strage era già emerso che sui panni sequestrati e appena passati nella lavatrice di Rosa non c’era traccia delle vittime. Così come sul cerotto che aveva al dito la donna non fu mai trovato dna che non fosse il suo. Eppure, di fronte a tutta una serie di indizi che portavano altrove e senza nulla in mano contro la coppia, Gallorini ebbe un’intuizione: chiese al testimone se l’uomo che aveva riconosciuto come un olivastro più alto di lui fino a 10 centimetri, esperto di arti marziali, con capelli neri rasati e mai visto prima, non potesse essere il notissimo vicino di casa bianco, più basso di lui, con i capelli tutt’altro che neri e rasati e per il quale le arti marziali erano un altro mondo. Gliene fece il nome 9 volte, anche se in aula dichiarò di non averlo fatto nemmeno una volta.

Ora che è stata ammessa l’istanza di revisione, SE e dico se si dovesse riaprire il processo si potrebbe tornare su questa pista?

Il processo di revisione di Brescia deve portare all’assoluzione o alla conferma della condanna di Olindo e Rosa. Nel primo caso, starà eventualmente alla Procura di Como ricominciare le indagini. Certo, gli elementi da dove ripartire gli inquirenti li avrebbero tutti.

Nel libro si parla della presenza della ‘ndrangheta a Erba. E' possibile che sia collegata in qualche modo con il giro di droga?

La ‘ndrangheta a Erba emerse nell’inchiesta della Procura di Milano del 2010. Tra i vertici c’era tale Francesco Crivaro, titolare di un locale dove si svolgevano i summit e che nel 2007 era diventato una sorta di ombra di Azouz: erano sempre insieme. Secondo un pentito considerato molto affidabile dalle sentenze, Francesco Oliverio, già a capo della famiglia di Belvedere Spinello, la locale di ‘ndrangheta di Erba trattava fino a 300 chili di droga a settimana con le bande straniere. Sicchè è verosimile che la ‘ndrangheta fosse a conoscenza delle lotte tra bande extracomunitarie sul territorio per il controllo dello spaccio.

Abdi Kais, che abbiamo ritrovato dopo anni, sostiene che all’epoca fosse in corso una faida tra il gruppo di tunisini di Merone che gravitavano intorno al fratello di Azouz e una banda di marocchini, sempre di Merone, con cui erano già arrivati ad accoltellarsi. Poco prima della strage, un agguato all’arma bianca, dello stesso tipo di quello avvenuto poi a Erba, era stato sventato dai tunisini.

Dal capitolo “La società anonima e gli spioni di Telecom” emergono altri dettagli inquietanti su come alcune prove (in questo caso intercettazioni) siano state insabbiate da “qualcuno”. Avete indagato anche su tale aspetto?

Non abbiamo mai scritto che siano state insabbiate. Raccontiamo semplicemente che nei processi, su migliaia di intercettazioni svolte, ne sono entrate meno di dieci. Ad esempio, i giudici scrissero in primo grado che era sospetto che Olindo e Rosa non parlassero mai in casa della strage. In realtà, in casa parlavano solo di quello. Solo che agli atti, per ragioni che nessuno ha mai saputo, non erano state allegate le intercettazioni da una certa ora del 12 dicembre, il giorno dopo la strage, al 16 dicembre. La cosa strana è che non c’è alcun verbale a giustificazione di tale mancanza: semplicemente il numero progressivo 22 del 12 si aggancia al progressivo 23 del 16, come se in casa in quei cinque giorni non ci fosse stato nessuno.

Ma questo è impossibile: perchè le microspie si sarebbero attivate anche con un rumore proveniente dall’esterno, esattamente come succederà dopo l’arresto della coppia, nelle ore precedenti al distacco del servizio. Ma mancavano anche moltissime intercettazioni di Mario Frigerio, da una certa ora del 28 dicembre fino al 3 gennaio, esattamente nei giorni in cui – stando alle nuove prove – Frigerio mutò il suo ricordo dall’aggressore olivastro in Olindo Romano. Quando poi le intercettazioni tornarono, i brogliacci non corrispondevano agli audio, segno che, evidentemente, qualcuno li aveva toccati. Le intercettazioni sparivano poi di nuovo dal 6 gennaio, ovvero due giorni prima dell’arresto di Olindo e Rosa, fino alla fine del servizio. Il problema è che nemmeno per tutte queste mancanze vi è un verbale dei carabinieri a giustificazione (ad esempio microspie non funzionanti, persona spostata di stanza, ecc). E anche questo è impossibile.

Ora, il punto è il seguente: le intercettazioni sono state svolte da una società, la Sio di Cantù. Ma sono state consegnate alla difesa da un’altra società di intercettazioni, la Waylog di Como. Facemmo una visura camerale: buona parte delle quote della Waylog risultavano intestate ad una fiduciaria svizzera, la Fenefin, di cui è impossibile conoscere i nomi dei reali proprietari. Secondo l’Autorità Anticorruzione, le istituzioni non possono affidare incarichi a società di cui non si conoscono i reali proprietari, cosa che invece a Como avvenne. E arriviamo al cuore della questione: la difesa chiese di accedere al server originale delle intercettazioni, per capire dove fossero finite quelle mancanti, ma la Corte d’Assise di Como rifiutò sempre l’accesso per motivi di riservatezza. Sicchè ci troviamo di fronte a questo: lo Stato affida le intercettazioni del più grave fatto di sangue del dopoguerra ad una società i cui proprietari sono per buona parte sconosciuti allo Stato stesso. E l’imputato non può nemmeno accedere agli originali di quelle intercettazioni filtrate da sconosciuti. Non si capisce come si concili tutto questo con lo Stato di diritto.

Leggendo l’istanza di Tarfusser, Lei ipotizza seriamente che ci siano tutti gli elementi non solo per riaprire il processo, ma anche per arrivare a un colpevole?

Molte prove sono state illecitamente distrutte al tribunale di Como, quando un cancelliere le portò all’inceneritore poche ore prima che la Cassazione ne autorizzasse l’esame e nonostante l’espresso divieto di due giudici. Tra queste, 19 mozziconi di sigaretta ritrovati in due posaceneri sul balcone di Raffaella: nè lei, nè la madre fumavano. E Azouz era partito per la Tunisia il 2 dicembre. Ma si potrebbe ricominciare analizzando le intercettazioni del processo per droga di Azouz. Il pm era lo stesso della strage di Erba. E analizzare tutte le cose trascurate all’epoca e che emergevano chiaramente negli atti.

Secondo Lei quali sono gli elementi su cui gli inquirenti dovrebbero concentrarsi ora, a parte le evidenti aporie del processo scorso?

In questo momento gli inquirenti non devono fare nulla. Diverso sarebbe se a Brescia il processo di revisione si concludesse con l’assoluzione di Olindo e Rosa. È certo, dalla nuova consulenza dell’ingegner Paolo Rabitti sui consumi elettrici, che in quella casa il pomeriggio della strage ci fosse qualcuno. Fatto che riscontra le dichiarazioni dei siriani che abitavano al piano di sotto e che dissero di aver sentito rumori di passi in casa di Raffaella a partire da due ore prima della strage. Se c’era qualcuno, quel qualcuno vi entrò usando le chiavi di casa, perchè non vi sono segni di effrazione. E due mazzi di chiavi furono ritrovati sulla scena del crimine.

Nessuno li identificò mai. Ipotizzando che uno fosse di Raffaella, di chi era l’altro? Non di Paola Galli, perchè il suo mazzo di chiavi lo ritrovò il marito a casa. Non di Azouz, perchè il suo fu ritrovato in un cesto del soggiorno. Ecco, si potrebbe cominciare a cercare il proprietario delle chiavi. Di certo, però, le chiavi non le avevano Olindo e Rosa. Le sentenze hanno infatti sostenuto che la coppia avesse staccato il contatore per costringere Raffaella a riaprire la porta (e andare a riattivarlo) per poi aggredirla. Oggi sappiamo che non è così. La consulenza Rabitti fa a pezzi l’intera dinamica della strage. 

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