Inaugurazione dell’anno giudiziario e le toghe: tutte cassate
Le principali dichiarazioni pronunciate in toga d’ermellino dai vertici della Magistratura meritano un commento...
Tutte cassate! Demistificazione delle più audaci sortite ascoltate durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario
L’inaugurazione dell’anno giudiziario è, per definizione che le attribuisce il CSM stesso, una cerimonia. In quanto tale, nessuno dovrebbe avere da eccepire se i partecipanti, pur essendo magistrati, ne approfittassero per farne quel semel in anno in cui licet l’autocompiacimento, l’autocelebrazione e – perché no? – anche un pizzico di autocommiserazione dell’autonomo potere costituzionale di cui i relatori rappresentano le massime cariche.
Se però, come da prassi ormai ricorrente, dai palchi allestiti nelle aule magne dei principali palazzi di giustizia italiani si snocciolano dati, si lanciano appelli, si articolano rendiconti con pretesa di esaustività; se, insomma, l’inaugurazione dell’anno giudiziario diventa momento di informazione sul funzionamento della giustizia e occasione di dialogo istituzionale, allora è doveroso che anche in quel giorno torni ospite di quegli stanzoni neobarocchi o postmoderni, brutalisti o medievali ciò che dovrebbe popolarne le cubature per tutte le altre 364 mattine dell’anno: il contraddittorio.
Siccome così non è stato per l’inaugurazione dell’anno giudiziario corrente, tocca supplire a quelli che il 26 gennaio scorso la prima presidente della Corte di Cassazione (optando per una pronuncia albionica tanto più singolare se combinata alla sua riconoscibile calata fiorentina) chiama midia, sì da evitare la diffusione di idee distorte tra i social media (detto invece come si scrive, se si vuole preferire l’altrettanto inconsueta combinazione idiomatica anglolatina promossa dal procuratore generale presso la Corte, intervenuto poco dopo).
Perché se già è piuttosto stolido l’adagio tutto italiano per il quale le parole dei giudici, quando confluiscono nelle «sentenze, non si commentano», ancor più sbagliato sarebbe non ragionarne quando sono affermazioni destinate al dibattito pubblico.
Dunque, una per una, in rassegna le principali dichiarazioni che meritano un commento tra quelle pronunciate in toga d’ermellino nel fine settimana appena trascorso, durante le inaugurazioni dell’anno giudiziario celebrate nella Corte di Cassazione e in tutte le Corti d’appello d’Italia.
Le dichiarazioni della prima presidente della Corte di Cassazione.
Ad aprire le danze, la già citata prima presidente della Cassazione, Margherita Cassano. Gongolando per l’accorciamento dei tempi di definizione dei processi (nell’italiano del 2024 che ha sciacquato i panni nel Tamigi ed espugnato anche il Palazzaccio: disposition time) a 310 giorni (da 386) in primo grado e a 615 (da 689) in appello, la Presidente sostiene che tale risultato sia dovuto alle «nuove norme sull’iscrizione della notizia di reato, sulle finestre di giurisdizione, sulle regole di giudizio per l’esercizio dell’azione penale, sui parametri di valutazione prognostica ai fini del rinvio a giudizio». Se questa è la sua – autorevolissima – opinione, tale non è la matematica.
La modifica dei “parametri di valutazione prognostica ai fini del rinvio a giudizio” (i.e.: i criteri in base ai quali decidere se mandare gli indagati a processo) operata dalla (pseudo)riforma Cartabia (che ha provato a rendere tali parametri più stringenti) infatti, non sembra aver avuto un impatto considerevole, anzi. Leggiamo i dati del Ministero. Rispetto al primo semestre del 2022, i rinvii a giudizio sono cresciuti del 13,3%, mentre le archiviazioni e le sentenze di non luogo a procedere per motivi diversi dalla prescrizione (cioè le alternative ai rinvii a giudizio) solo del 7,3%.
Soprattutto, se è vero che nei tribunali monocratici il numero di processi definiti è aumentato di un sensazionale 22,6%, è altrettanto vero che il numero di processi definiti con sentenze di merito (cioè con un giudizio sulla colpevolezza o innocenza dell’imputato) è aumentato solo del 13,8%.
Se ne desume che le novità della riforma grazie alle quali è stata possibile, in misura maggiore, un’accelerazione dei tempi del processo sono quelle che hanno aumentato lo spettro delle decisioni non di merito, ma in rito, ossia: la procedibilità a querela di parte di quasi tutte le ipotesi di furto, truffa e lesioni in danno di privati e la nuova possibilità di emettere sentenza di non doversi procedere in caso di mancato reperimento dell’imputato.
Soprattutto la prima delle due novità altro non consiste che nella rinuncia dello Stato a perseguire e punire, in molti casi, crimini odiosi e fonte di insicurezza sociale, come i furti sui mezzi di trasporto e nei luoghi pubblici, le truffe in danno degli anziani, le aggressioni che comportano prognosi anche superiori ai quaranta giorni e, soprattutto, a condannare delinquenti abituali e recidivi a pene più severe.
Le dichiarazioni del procuratore generale presso la Corte di Cassazione.
Il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Luigi Salvato, ha ammonito dall’ «ascrivere al pubblico ministero la dilatazione dei tempi dei processi allo stesso non imputabile, ovvero esiti difformi rispetto all’esercizio dell’azione che giunge a negare in radice la dialettica valutativa, l’essenza ed il significato del processo, oppure le distorsioni della c.d. giustizia mediatica».
Il primo principio è sacrosanto: il processo penale è teatro di scontro di vedute e il pubblico ministero deve essere libero di accusare ed esercitare l’azione penale quando ritiene che ve ne siano i presupposti, senza dover pagare conseguenze personali, anche nei casi in cui il contraddittorio dibattimentale porti a una ricostruzione dei fatti diversa da quella che aveva in origine ipotizzato.
Citando Camus, però, i principi mal si conciliano con le piccole cose, come quelle di cui trattano i tribunali monocratici, che giudicano dei reati più comuni e in cui si svolge la quotidianità della giustizia penale.
Chi sa come funziona l’ordinaria amministrazione penale sa che i pubblici ministeri “togati”, ossia i magistrati in ruolo, dirigono le indagini di tutti i procedimenti ma poi partecipano soltanto alle udienze e ai dibattimenti davanti al tribunale collegiale, in cui si trattano i reati più importanti. L’accusa nei processi davanti al tribunale monocratico è delegata quasi sempre ai viceprocuratori onorari: avvocati pagati a gettone per fare i pubblici ministeri.
Nel 2019, la percentuale di assoluzioni nei tribunali monocratici rasentava il 40%, mentre la percentuale di assoluzioni nei “grandi” processi davanti ai tribunali collegiali era inferiore al 30%. Una forbice troppo ampia per credere che cotanti «esiti difformi rispetto all’esercizio dell’azione» davanti al giudice monocratico dipendano esclusivamente da casuali divergenze nei risultati cui conduce la pratica della «dialettica valutativa» di cui parla Salvato e non che si tratti di un problema sistematico. Un sistema che (come conferma uno dei rapporti più alti in Europa tra indagini assegnate ai pubblici ministeri e processi che finiscono in Tribunale) vede, nella maggior parte dei casi, i pubblici ministeri togati trascurare i reati di competenza del tribunale monocratico fin dalla fase delle indagini: indagando poco, valutando meno (anche eventuali indizi di innocenza) e infine sparando in serie richieste di rinvio a dei giudizi che, tanto, saranno affare di altri (dei viceprocuratori e dei giudici monocratici, i quali alla peggio – come poi fanno quattro volte su dieci – assolveranno).
Così per la durata dei processi: giustissimo, quasi tautologico, ribadire che non vadano «ascritte al pubblico ministero le dilatazioni dei tempi del processo quando a lui non imputabili». Ma in un Paese in cui le indagini, secondo i dati del 2017 (gli ultimi disponibili) durano in media 404 giorni, cioè più del doppio del termine ordinario (sei mesi) entro cui dovrebbero concludersi secondo la legge, forse qualcosa di imputabile ai pubblici ministeri (signori egemoni dell’indagine preliminare, per i poteri che loro conferisce il codice) c’è.
La giaculatoria corale sulla carenza di risorse.
Dal Palazzaccio a Milano, passando per le inaugurazioni dell’anno giudiziario di Firenze, Palermo, Torino e Venezia, si è levato un lamento unanime: mancano risorse (finanziarie, umane, strumentali).
A Roma, forse per deformazione personale, è stato un avvocato, il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, a prendere le parti dei magistrati e a denunciare che se i processi celebrati nelle aule di giustizia dello Stivale sono secondi per ritardi solo al trasporto pubblico locale è perché «in Italia abbiamo n. 11,86 giudici professionali ogni 100.000 abitanti, a fronte della media dei Paesi europei (non solo dei ventisette facenti parte dell’UE) ove invece ce ne sono quasi il doppio: 22,2» e ci sono solo «3,83 pubblici ministeri in Italia per 100.000 abitanti a fronte degli 11,10 nella media dei Paesi europei».
L’Europa intesa come continente, assunta a parametro di confronto dal presidente Greco, però, non è nulla più che un’entità geografica: altrettanto varrebbe confrontare i dati italiani con quelli degli altri stati che affacciano sul Mediterraneo, con quelli delle altre penisole del globo o degli altri territori prevalentemente collinari.
Se si legge con attenzione l’ultimo European judicial systems CEPEJ Evaluation Report (che è il documento citato, con una certa selettività, da Greco), invece si scopre che il rapporto tra numero di giudici e numero di abitanti italiano è perfettamente in linea con i dati di economie sviluppate e paragonabili come Francia e Spagna (che ne hanno anche meno: 11,2 ogni 100.000 abitanti), di sistemi cui costantemente guardiamo con ammirazione come Svezia (11,6/100.000) e Norvegia (11/100.000), leggermente inferiore a quello del Belgio (13,2/100.000) e largamente superiore a Israele (7,8/100.000). Così come scopriamo che i dati medi (citati dal presidente Greco, anche se poco importanti in statistiche come questa) e mediani (di maggior interesse) europei impennano per il contributo di paesi come la Serbia (38,1/100.000), il Montenegro (49,8/100.000), la Croazia (40,7/100.000), la Grecia (36/100.000) e la Romania (24/100.000), tutti influenzati dal modello tedesco, che è diverso dal nostro e dagli altri sistemi di ispirazione napoleonica. Ognuno – anche il lettore – è libero di scegliersi i suoi, di modelli.
Altrettanto insignificante è, isolatamente considerato, il dato sul numero di pubblici ministeri. Se in Italia sono 3,3 ogni 100.000 abitanti, in Francia sono 3,2. Quel che conta – e che fa notare il CEPEJ – però, e che in Italia quei 3,3 pubblici ministeri togati sono affiancati dai viceprocuratori non togati, in numero pari ai tre quarti (76%) dei pubblici ministeri togati, cui – come abbiamo detto – è affidata la gestione di quasi tutti i giudizi davanti al tribunale monocratico. Per un numero complessivo finale di personale dedicato alle funzioni d’accusa che si avvicina, quando non supera, i 4,5 su 100.000 abitanti dei Paesi Bassi (cui sommare un 23% di procuratori non togati), Inghilterra e Austria, o i 5,4 della Spagna. E nessuno ha detto che, a fronte di una media europea di un membro dello staff per procuratore, in Italia gli uomini a disposizione di ogni pubblico ministero sono quattro. Tutto ciò conduce a una media del carico di lavoro incombente sui pubblici ministeri italiani (calcolato in termini di processi assegnati ogni 100 abitanti) non troppo distante da quelle dei paesi europei più sviluppati, in alcuni casi inferiore.
Un approccio cartesiano ci vorrebbe finalmente giunti a individuare la causa dei ritardi del sistema-giustizia nostrano: la carenza di risorse finanziarie. E invece, proprio perché siamo cartesiani e non presuppozionali, scopriamo che l’Italia, destinando all’amministrazione della giustizia lo 0,3% del PIL e una spesa media di 82,15 € per abitante, è perfettamente in linea con gli investimenti nel settore degli altri paesi europei con un PIL pro capite compreso tra i 20.000 e i 40.000 €: il Belgio investe nella giustizia lo 0,22% del PIL, la Francia lo 0,21%, la Spagna lo 0,37%.
Eppure, la giustizia più lenta (rectius, veniam peto: i disposition time più lunghi) ce l’abbiamo noi. C’è qualcosa che non quadra. Non solo nei discorsi sentiti all’inaugurazione dell’anno giudiziario.