"Mio padre scriveva i decori funebri: così io combatto la morte con le parole"

Membro della Società Milanese di Psicoanalisi e direttore dell’Irpa, lo psicoanalista Massimo Recalcati racconta su Affari le sue fatiche letterarie più celebri

Di Lucrezia Lerro
Massimo Recalcati
Culture

“Per me negli anni scrivere è diventato come respirare": l'intervista di Affaritaliani.it a Massimo Recalcati 

Massimo Recalcati, tra i più noti psicoanalisti lacaniani in Italia, è membro della Società Milanese di Psicoanalisi e direttore dell’Irpa (Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata). Con i suoi numerosi saggi racconta, da moltissimi anni, i migliori e i peggiori sentimenti umani. Dall’amore all’odio. Dall’ammirazione all’invidia. Dall’umanità alla disumanità. Le sue opere sono tradotte in diverse lingue.

“Il trauma del fuoco” è il titolo di uno dei suoi ultimi libri dedicato all’artista Claudio Parmiggiani.  Il titolo è folgorante, il testo ha un notevole ritmo poetico. Leggendolo si ha sensazione di sprofondare nelle opere dell’artista.

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Quanto ha lavorato alla stesura di un saggio tanto complesso e importante?

Da quando ho conosciuto la sua opera. Dunque quindici anni fa. E’ stato un incontro. Qualcosa che cambia la nostra visione delle cose. Ero colpito da come la cenere e la polvere, l’ombra e il fuoco, potessero diventare materia poetica. Da come l’assoluto assumesse le forme più diverse del mondo sensibile… Non capita spesso. Anzi, capita molto raramente. Per questo ogni vero incontro assomiglia ad un incontro d’amore. Cosi è stato per me con l’opera di Parmiggiani. Poi è nata nel tempo una profonda amicizia. E’ un onore per me essere un suo lettore.  

Un altro suo titolo che colpisce moltissimo è “La luce delle stelle morte”, libro che è stato in cima alle classifiche dei saggi più venduti. Anche qui, nel titolo, c’è un riferimento esplicito all’Opera di Parmiggiani? 

In un’opera straordinaria titolata “A lume spento”, egli mostra la presenza di una luce sul profilo di una statua classica che proviene da una lampada, appunto, spenta. E’ il mistero del resto. Cosa resta di chi non è più con noi? Cosa resta di chi non è più qui? E’ l’idea che la polvere non sia il contrario della luce ma un luogo indistruttibile della luce. 

La poesia, i riferimenti poetici, non mancano mai nel suo lavoro di saggista. E’ così? Quanto è importante per la sua scrittura la parola poetica?

La parola poetica è un taglio verticale. Come quello che Fontana imprime sulla tela. Un taglio netto che apre alla possibilità di una nuova percezione delle cose. E’ quello che accade anche nell’esperienza dell’analisi: la parola dello psicoanalista non è una parola di consolazione ma un taglio che apre, un colpo, un urto. Non è la parola della comunicazione e del dialogo, ma la parola che, come accade con quella poetica, apre ad un'altra visione delle cose.

Sembra che spesso la letteratura, gli scrittori, arrivino a toccare, o ad individuare, il cuore di questioni che sono il territorio specifico ed elettivo dell’indagine psicoanalitica…

In generale tutti gli artisti, come diceva già Freud, anticipano gli psicoanalisti. Hanno la capacità di toccare il reale. Il reale del sesso, della vita e della morte, il reale della verità che sfugge.

Molti psicoanalisti hanno percorso anche la strada della scrittura creativa. Pare che ci sia un legame, una sorta di “alchimia” che unisce l’una all’altra. “Alchimia” che ritrovo nel suo potente testo teatrale “Amen”. Che ne pensa?

Da ragazzo volevo fare il poeta o, più precisamente, dedicarmi alla drammaturgia. Scrivere di teatro. Ho archiviato questa passione giovanile per dedicarmi alla psicoanalisi. Nel tempo del lockdown ho avuto il tempo per tornare a scrivere un testo teatrale. Anche “Amen”, come l’opera di Parmiggiani e quella a me molto cara di Beckett, sorge dalla polvere e dalla cenere. Ma in fondo anche la psicoanalisi non si occupa che di polvere e di cenere… di resti, di quello che resta, di cosa possiamo fare coi nostri resti e coi resti che noi stessi siamo.

Vorrei soffermarmi brevemente sulla qualità della scrittura, che è precisa e allo stesso tempo fluida. Quanto ha lavorato sulla grana della scrittura di “Amen”? 

Avevo iniziato da tempo a prendere degli appunti. Deve sapere che per occuparmi di psicoanalisi ho abbandonato in modo definitivo il teatro. Da ragazzo vivevo di pane e teatro. Poi di colpo ho abbandonato. Succede solo coi grandi amori. Non sono possibili compromessi, frequentazioni incerte, si può solo tagliare nettamente… ma la lingua di “Amen” è anche figlia di quella prima stagione della mia vita. Poi c’è tutto il lavoro dello psicoanalista. L’ascolto delle lingue di coloro che mi hanno parlato in questi trent’anni. 

“Amen” mi pare articolato secondo la classica struttura del “racconto” esistenziale: potrebbe raccontarci da che cosa nasce questa necessità?

Attorno a noi c’era solo morte e distruzione. Sembrava stessimo perdendo il mondo come lo avevamo conosciuto e amato. Era una prova di resistenza. La stessa che ha inaugurato la mia vita. Sono nato prematuro con il marchio della morte stampato addosso. Sono sopravvissuto al freddo e al gelo dell’incubatrice, al sacramento dell’estrema unzione, al destino che mi voleva morto già appena nato… Ebbene “Amen” racconta di questa resistenza, di questo spasmo – il battito del cuore, il rumore del passo – che non smette di esistere. E’ la presa indelebile che fece su di me “il Sergente nella neve” di Rigoni Stern che lessi da ragazzo e che resta lo sfondo di “Amen”. Ero stato un piccolo sergente nella neve nella mia lotta contro la tentazione di lasciarmi sprofondare nel sonno, nel gelo della morte.

Partiamo dall’inizio. Qual è stato in assoluto il primo lavoro di scrittura?

Un testo teatrale titolato “Il baltico nell’occhio del sorvegliante.” Non avevo ancora vent’anni. Fu messo in scena una sola volta in un teatrino sperimentale. Eravamo alla fine degli anni settanta. Da qualche parte lo conservo ancora. Era un testo fatto di immagini e di ricordi. Un pasticcio in realtà…

Marcel Proust nel libro “La lettura”, prezioso volumetto che racconta al lettore il viaggio dello scrittore nei libri, fa sprofondare il lettore in un’atmosfera di scoperta continua. Nel suo testo “A libro aperto, una vita e i suoi libri”, ho ritrovato un’atmosfera di quel genere, magica ed evocativa. Che cosa può dirci delle sue letture

I libri possono essere degli incontri. Accade quando noi ci sentiamo letti. Allora è il libro che assomiglia ad un coltello che ci taglia più che a qualcosa che noi assorbiamo. Succede quando attraverso un libro incontriamo una parte sconosciuta di noi stessi, quando, appunto, il libro ci tocca. I libri che non abbiamo dimenticato sono i libri che ci hanno letto. Dovremmo capovolgere un’idea ingenua della fruizione dell’arte. Non sono io che guardo un quadro o che ascolto un brano musicale, ma è il quadro che mi guarda, è il brano musicale che mi ascolta. Allo stesso modo non sono io che leggo il libro ma il libro che mi legge. Succede, appunto, quando facciamo un incontro. Siamo toccati, colpiti, urtati, ammaccati, spostati.

Sembra che ci sia un filo conduttore nella sua Opera, l’amore in primis, e poi la resistenza, l’eredità. E’ così? 

Sì, sono tutti e tre temi a me molto cari. L’amore è ciò che rivela la potenza della contingenza dell’incontro, ciò che mostra come un incontro può cambiare il destino della nostra vita. In questo senso poco fa ho detto che ogni incontro degno di questo nome è un incontro d’amore. Nel senso che la nostra vita è fatta da tutti gli incontri che abbiamo fatto. L’eredità implica esattamente questa responsabilità di fondo: cosa hai fatto degli incontri che ti hanno fatto? L’ereditare non è un movimento passivo di acquisizione di beni, rendite, proprietà, geni, ma un movimento attivo in avanti, dare una forma nuova a tutto quello che ci ha costituito. Per questa ragione il giusto erede è sempre eretico. Perché dà una forma imprevista, nuova appunto, a tutto ciò che lo ha costituito. Questo è anche un’espressione della vita come resistenza alla tentazione nei confronti della morte, dell’odio, della violenza, della distruzione.

Racconta in “A libro aperto”, di come la scrittura calligrafica di suo padre per le corone funerarie, in caratteri d’oro, sia stata la porta d’ingresso ai libri. Suggestione forte, che fa pensare al tema dell’eredità che ha affrontato anche nel volume “Il complesso di Telemaco.”

E’ un ricordo della mia infanzia, è la mia scena primaria, come direbbe Freud. Scoprivo di notte mio padre, fiorista di paese, scrivere con una pittura d’oro le frasi con le quali i parenti del defunto lo salutavano sui nastri che addobbavano le corone di fiori. La scrittura per me è un modo per ritardare la morte, per rinviare il suo marchio. In questo senso ho ereditato il lavoro di mio padre… Scrivere, creare, generare è un modo per non lasciare alla morte l’ultima parola. Per questo per me negli anni scrivere è diventato come respirare. Non lo sanno coloro che mi criticano perché pubblico troppi libri… La mia grafomania ha in realtà questa origine intima: spiare nella notte mio padre nel suo corpo a corpo con l’ombra spessa della morte. Mettere dell’oro sulla sua ferita.

“La violenza barbara della guerra può esistere solo perché la lezione del libro non è stata ascoltata.” Di un’attualità sorprendente…

La lezione del libro è quella del pluralismo delle lingue, è quella del mare aperto. Non esiste una sola lingua, non esiste un solo libro. Esseri umani significa essere esposti alla necessità della traduzione, alla moltiplicazione delle lingue. E’ lo strano miracolo della Pentecoste. Ogni lingua deve essere rispettata nella sua particolarità ma nessuna lingua può imporre questa particolarità sulla particolarità delle altre lingue. E’ il miracolo della traduzione come esercizio che non ha mai un termine definitivo.

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