“Agnelli fu un’icona di stile, ma non è vero che fu un imprenditore privato”

L’economista Riccardo Gallo, vicepresidente dell’Iri nei primi anni ‘90, tratteggia un ritratto inedito dell’Avvocato e del suo ruolo nell’economia

di Marco Scotti
Gianni Agnelli
Economia

I 20 anni dalla morte dell'Avvocato/ “Agnelli un’icona di stile”, parla l’economista riccardo gallo, già vicepresidente dell’iri

“Di Agnelli ho ricordi positivi e negativi. Oltre allo stile, innegabile, c’è anche una capacità gestionale da applaudire. Ma anche una certa mistificazione: non è vero che Fiat era una società privata”. Riccardo Gallo, economista, già ordinario all’Università La Sapienza di Roma, ha un lunga esperienza in ambito industriale. È stato vicepresidente dell’Iri dal 1991 al 1992 ed esperto di risanamento di aziende soprattutto del comparto manifatturiero. Chiedere a lui un ricordo dell’avvocato Gianni Agnelli, nel ventennale della morte, significa rivolgersi a un attento osservatore delle dinamiche imprenditoriali che hanno animato quegli anni.

Professore, che ruolo ha giocato Agnelli nell’economia italiana e qual è il suo lascito?

Di lui ho da portare due esempi, uno negativo e uno positivo. Partiamo da quest’ultimo: è vero che come presidente della Fiat non fu mai un “gestore”, ma aveva comunque la responsabilità politica del gruppo. Quando nell’ottobre del 1980 ci fu la marcia dei 40.000 (una manifestazione contro i picchetti e gli scioperi che bloccarono per oltre un mese gli stabilimenti, ndr), fu Agnelli ad appoggiare questa linea e a portare avanti una ricetta fatta di investimenti e di ritorno alla produttività. Di fatto fu una delle mosse che risolse la crisi dell’auto in Italia dopo la crisi petrolifera, il disastro del Kippur, le domeniche a piedi. Certo, fu Romiti a decidere, ma Agnelli avallò questa scelta e rappresentò un vero esempio per l’imprenditoria italiana.

E il lascito negativo?

Si dice che fu un imprenditore privato: è una falsità. Aveva un interesse che lo legava a doppio filo allo Stato. Un esempio? Gli incentivi alla rottamazione con cui, in cambio, accettava di tenere in piedi delle lavorazioni anti-economiche. Non va bene, non è una mentalità da imprenditore privato. Tant’è vero che nel 2013 scrissi che Sergio Marchionne, rifiutando gli incentivi, avviò la vera “privatizzazione” di Fiat. Non perché non fosse già prima un’azienda privata, ma perché si liberò dal rapporto con lo Stato una volta per tutte.

Ma in che senso non era un’azienda privata la Fiat sotto Agnelli?

In passato il comportamento di Fiat era parzialmente pubblicistico. Più precisamente, prima Fiat poteva avere dallo Stato italiano forme di indennizzo per oneri impropri, vale a dire per tutta una serie di extra-costi connessi al conseguimento di finalità pubblicistiche, per esempio produzioni, fabbriche e localizzazioni aventi una economicità non piena ma destinata allo sviluppo del Mezzogiorno o a vincoli occupazionali.

Agnelli fu anche, da presidente di Confindustria, il firmatario dell’accordo con Luciano Lama per l’indicizzazione dei salari nel 1975. Oggi se ne torna a parlare ma anche in questo periodo i conti non tornerebbero: non è anche questo un lascito negativo dell’Avvocato?

Lo è. Ma preferisco mantenermi equilibrato: un ricordo negativo e uno positivo.

Agnelli è anche icona di stile, di eleganza, nell’accezione più ampia del termine. È d’accordo?

Le racconto tre episodi. Il 1° giugno 1991 il presidente della Repubblica Cossiga nominò Gianni Agnelli senatore a vita. L’avvocato dovette dimettersi da consigliere di amministrazione del Credito Italiano, banca dell’Iri. Nel consiglio dell’altra maggiore banca milanese, la Banca Commerciale Italiana sedeva Leopoldo Pirelli. Era un segno di rispetto dell’Iri, holding controllata dallo Stato, verso il mondo dell’imprenditoria privata, era anche un residuo del modello di economia mista italiana invidiata da mezzo mondo. A quell’epoca c’era il governo Andreotti VII, l’ultimo presieduto da Giulio Andreotti. Presidente dell’Iri era l’andreottiano Franco Nobili. Ebbene, nell’ultima settimana di luglio 1991 Nobili portò all’approvazione del Comitato di presidenza la nomina al posto di Gianni Agnelli dimissionario di Gianmaria Roveraro, persona perbene ma andreottiano. Io fui l’unico a eccepire e a suggerire che si dovesse sostituire l’Avvocato con un altro esponente dello stesso mondo. La domenica successiva, il 28 luglio, sul Corriere della Sera Turani (evidentemente ispirato da Torino) accusò l’Iri di Andreotti di scarsa cortesia ed elogiò me. Pochi giorni dopo, Nobili irritato obiettò che io non avevo votato contro e io risposi che, se per questo, forse non avevamo proprio votato. Ho riflettuto spesso sul concetto di Turani di “scarsa cortesia” in materia societaria.

Il secondo episodio?

A fine febbraio 1992 l’Iri cedette la partecipazione di controllo nella Cementir con una procedura di gara pubblica davanti a un notaio. Pochi giorni prima, il 18 febbraio era divenuta legge la disciplina delle offerte pubbliche di vendita, così che a fine febbraio gli uffici legislativi del governo lavoravano sulle procedure di attuazione della nuova normativa. La finanziaria della famiglia Agnelli aveva la proprietà della Unicem in gara per rilevare la Cementir. Nelle settimane precedenti, alla cerimonia di presentazione dell’Alfa 155, Gianni Agnelli mi disse confidenzialmente che a lui sembrava “poco elegante” che Iri e pretendenti all’acquisto non passassero attraverso un’Opa. Sempre in quei giorni Enrico Cuccia mi disse che secondo lui Agnelli sbagliava a partecipare a una gara con imprenditori troppo inferiori alla casa torinese. Alla fine vinse Caltagirone, che rilanciò più volte giungendo a offrire un prezzo quasi fuori mercato.

Ultimo episodio?

Nel 2002, pochi mesi prima della scomparsa dell’Avvocato, si tenne di sabato mattina un evento al Lingotto di Torino, dove si sapeva sarebbe intervenuto l’Avvocato. Io accompagnai il ministro delle Attività Produttive, Antonio Marzano, di cui ero consigliere per l’industria. Ricordo che scelsi con qualche perplessità di indossare un abito un po’ vistoso, doppiopetto con baveri a lancia, bluette gessato con rigo azzurro più chiaro, cravatta regimental un po’ larga, azzurra dello stesso colore del rigo gessato. Ero incerto perché mi sembrava un azzardo. Ebbene quando vidi arrivare Gianni Agnelli, claudicante, con un bastone, rimasi affascinato: indossava un doppiopetto baveri a lancia bluette ma molto, molto più vistoso del mio, con una distanza tra i righi gessati molto più ampia del mio, con un’eleganza un po’ vanitosa. Ecco, secondo me, l’eleganza a 360 gradi era il carattere distintivo di Gianni Agnelli.

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