Bankitalia, Panetta: "L'Italia spende in debito come nell'istruzione. La crescita resta l'obiettivo fondamentale"
Le autorità europee hanno ora il difficile compito di garantire prosperità ai cittadini in un mondo meno stabile e meno aperto
Fabio Panetta, governatore di Bankitalia
La lezione dell’Europa: l’essenziale come fondamento di prosperità e pace
Il progetto europeo ebbe inizio quasi ottant’anni fa, dalle macerie della Seconda guerra mondiale, come risposta all’aspirazione collettiva di prevenire ulteriori lotte fratricide tra gli Stati del Continente. I due conflitti mondiali che si sono susseguiti in soli trent’anni rappresentarono il culmine di una storia di dispute e combattimenti che aveva tormentato l’Europa per secoli, con al centro la contrapposizione tra Francia e Germania. La motivazione alla base dell’integrazione europea è ben riassunta nella celebre dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio del 1950: «L’Europa non è stata fatta e abbiamo avuto la guerra». La soluzione che egli proponeva era un’unificazione economica, che rendesse la guerra «non solo impensabile, ma materialmente impossibile».
Questa visione ambiziosa e lungimirante portò, nel 1951, alla creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, ispirata da personalità illustri come lo stesso Schuman, Jean Monnet, Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer. Successivamente, con il Trattato di Roma del 1957, si compì un passo ulteriore verso la creazione di un mercato comune, di un’unione doganale e di strumenti volti a ridurre le disparità regionali. Questa genesi aiuta a comprendere le finalità più alte del progetto europeo: la creazione di interessi e intenti comuni tra paesi con l’obiettivo di generare benessere e prosperità e il fine ultimo di garantire la pace.
Nelle parole del Presidente Mattarella lo scorso anno in questa stessa sede: «… un reciproco impegno di pace che i popoli e gli Stati si sono scambiati, dopo l’abisso della seconda guerra mondiale». Solo mantenendo viva questa ispirazione essenziale possiamo affrontare con il giusto slancio le difficoltà attuali. Nel tempo l’integrazione europea ha portato importanti benefici ai cittadini. L’abolizione delle tariffe doganali interne ha favorito la specializzazione produttiva e la realizzazione di economie di scala, stimolando l’efficienza e la concorrenza e accrescendo l’occupazione e il benessere. Si stima che in assenza del mercato unico il reddito pro capite in Europa oggi sarebbe inferiore di un quinto.
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La creazione della UE nel 1992 e l’avvio dell’Unione economica e monetaria (UEM) nel 1999 hanno rappresentato due tappe fondamentali, ampliando il coordinamento delle politiche economiche tra gli Stati membri e introducendo una politica monetaria unica. Dal 1999 a oggi il commercio tra i paesi dell’area è aumentato di un quarto in rapporto al prodotto interno lordo, e si sono intensificati i legami tra imprese all’interno delle filiere produttive europee. L’euro è diventato la seconda valuta mondiale, rafforzando la nostra sovranità economica e la nostra rilevanza internazionale.
Le crisi che hanno colpito il nostro continente in meno di vent’anni hanno però messo a dura prova l’Unione economica e monetaria. La risposta alla crisi dei debiti sovrani del 2010-12 – che fece seguito alla crisi finanziaria del 2008-09 – ha rappresentato un passo falso nel cammino europeo, anche a causa dell’incompletezza dell’assetto istituzionale. Le politiche di austerità adottate in quella fase hanno accentuato in più paesi gli effetti recessivi della crisi, rendendo la successiva ripresa lenta e fragile e provocando fratture economiche e politiche tra Stati membri. Le risposte alle crisi più recenti – innescate dalla pandemia e dallo shock energetico – hanno invece segnato un progresso nell’impostazione delle politiche comuni. Sono stati effettuati interventi di bilancio significativi a livello europeo – in particolare con il programma Next Generation EU (NGEU) – per sostenere l’attività economica, rafforzando così gli effetti della politica monetaria. Gli aiuti al settore privato sono stati affiancati da misure volte a innalzare la crescita potenziale. I governi europei hanno ora il compito di non disperdere questo slancio e di proseguire lungo il percorso comune. Parafrasando Jacques Delors, un’altra figura di spicco dell’europeismo, occorre affiancare al pompiere che spegne gli incendi un architetto che progetti i palazzi, per costruire un’Europa forte e unita.
Gli effetti delle crisi e delle tensioni geopolitiche
Il progetto europeo si trova ora di fronte a sfide sia interne sia esterne che ne mettono alla prova la solidità e la coesione. L’indebolimento della crescita economica, la transizione dall’industria ai servizi e la connessa maggiore frammentazione del tessuto sociale, le difficoltà di integrazione di una popolazione immigrata sempre più numerosa, i divari di sviluppo tra diverse aree del continente, ampliati dalla crisi dei debiti sovrani, hanno eroso la fiducia nel progetto europeo. Sono emerse spinte nazionalistiche e il processo di integrazione ha rallentato. La risposta comune alla pandemia ha solo attenuato questa tendenza. Sono fenomeni non esclusivamente europei, che si manifestano anche a livello globale. La sequenza di shock senza precedenti osservata negli anni scorsi – dalla pandemia all’aggressione della Russia all’Ucraina, alla crisi energetica – ha avuto ripercussioni economiche di ampia portata, accentuando le spinte protezionistiche preesistenti.
Dopo decenni in cui la globalizzazione sembrava inarrestabile, le dispute geopolitiche sono tornate a minacciare il sistema di scambi internazionali e la stabilità dell’economia mondiale. Il commercio globale mostra preoccupanti segni di frammentazione evidenziati dalla Brexit, dal minore sostegno degli Stati Uniti all’Organizzazione mondiale del commercio e dalle dispute protezionistiche tra Stati Uniti e Cina. Inoltre, i maggiori paesi mostrano una crescente riluttanza a dipendere da partner commerciali con cui non condividono relazioni consolidate o affinità politiche, economiche e culturali.
Questi sviluppi alimentano timori che il mondo possa nuovamente dividersi in blocchi contrapposti dal punto di vista economico, politico e persino militare. Di fatto, mettono in discussione i principi di cooperazione internazionale e l’assetto multilaterale che dal secondo dopoguerra hanno sostenuto lo sviluppo mondiale e contribuito alla pace tra le principali potenze. Un tale scenario comporta rischi significativi per l’economia europea, dipendente dalla domanda estera e povera di materie prime, e quindi vulnerabile in un mondo frammentato sul piano commerciale.
Rafforzare l’economia europea per garantire crescita e stabilità
Le autorità europee hanno ora il difficile compito di garantire prosperità ai cittadini in un mondo meno stabile e meno aperto. Questo obiettivo richiede progressi in più direzioni. Anzitutto, è fondamentale proseguire il cammino di integrazione. Un banco di prova per la nuova legislatura europea sarà la capacità di confermare il ricorso a progetti di spesa comuni e di avanzare verso un’unione più completa e più integrata sul piano sia finanziario sia fiscale.
Poiché il programma NGEU terminerà nel 2026, un orizzonte non lontano, è necessario avviare una riflessione sui prossimi passi. Il disegno e la portata dei programmi futuri dipenderanno in larga parte dal successo di quelli in corso, in particolare dalla capacità dei singoli paesi di utilizzare proficuamente i fondi messi a disposizione dai rispettivi piani di ripresa e resilienza. In secondo luogo, è indispensabile rilanciare la crescita, non solo per garantire il benessere dei cittadini, ma anche per continuare a contare nel mondo. Vent’anni fa sia la UE sia gli Stati Uniti producevano un quarto del reddito mondiale; da allora il peso della UE è sceso al 18 per cento mentre quello degli Stati Uniti è rimasto invariato.
Il rafforzamento dell’economia europea deve avvenire su più dimensioni: riequilibrando la sua dipendenza dalla domanda estera e valorizzando il mercato unico; rendendola più competitiva; ponendola all’avanguardia in campo tecnologico ed energetico; mettendola in grado di provvedere alla propria sicurezza esterna. In precedenti occasioni ho discusso gli interventi possibili in questi campi5 , e non lo rifarò oggi. Voglio però soffermarmi su alcuni aspetti particolarmente rilevanti.
La demografia e il mercato del lavoro
Le proiezioni demografiche indicano che nei prossimi decenni si ridurrà il numero di cittadini europei in età da lavoro e aumenterà il numero degli anziani. Questa dinamica rischia di avere effetti negativi sulla tenuta dei sistemi pensionistici, sul sistema sanitario, sulla propensione a intraprendere e a innovare, sulla sostenibilità dei debiti pubblici. Per contrastare questi effetti, è essenziale rafforzare il capitale umano e aumentare l’occupazione di giovani e donne, in particolare nei paesi – tra cui l’Italia – dove i divari di partecipazione al mercato del lavoro per genere ed età sono ancora troppo ampi. Anche misure che favoriscano un afflusso di lavoratori stranieri regolari costituiscono una risposta razionale sul piano economico, indipendentemente da valutazioni di altra natura. L’ingresso di immigrati regolari andrà gestito in maniera coordinata all’interno dell’Unione, bilanciando le esigenze produttive con gli equilibri sociali e rafforzando l’integrazione dei cittadini stranieri nel sistema di istruzione e nel mercato del lavoro.
La produttività e la tecnologia
Anche con più occupazione e più lavoratori stranieri, il contributo del lavoro alla crescita sarà però contenuto. Solo una maggiore produttività – cioè un incremento del prodotto per ora lavorata – potrà assicurare sviluppo e redditi elevati. Tuttavia, in Europa la produttività cresce lentamente: negli ultimi due decenni abbiamo accumulato un ritardo di 20 punti percentuali rispetto agli Stati Uniti, principalmente a causa della difficoltà che le imprese europee incontrano nell’utilizzare nuove tecnologie nel processo produttivo. Secondo studi recenti7 , questa debolezza riflette la frammentazione delle attività di ricerca e sviluppo e la scarsa integrazione tra il mondo scientifico e quello delle imprese.
L’industria europea è intrappolata in settori a tecnologia intermedia e poco presente in quelli alla frontiera, nonostante l’eccellenza della ricerca condotta nei singoli paesi. Il caso dell’intelligenza artificiale (IA) è emblematico. Sebbene in questo campo le università europee producano ricerca di qualità, le aziende continentali hanno una presenza trascurabile nello sviluppo della tecnologia: tra il 2013 e il 2023, gli investimenti privati nel campo dell’IA sono stati 20 miliardi di dollari in Europa, contro 330 negli Stati Uniti e 100 in Cina. È evidente, per motivi sia economici sia strategici, che l’Europa non può limitarsi a essere un semplice utilizzatore della tecnologia.
Deve ambire a un ruolo attivo nella sua produzione. Una presenza significativa dell’Europa in questo settore – oggi dominato da pochi giganti tecnologici globali – accrescerebbe la concorrenza e determinerebbe benefici che oltrepassano la dimensione produttiva e riguardano i diritti essenziali dei cittadini, quali la tutela dei dati personali e il pluralismo nel settore dell’informazione. Rafforzare l’Europa – e con essa l’Italia – non è solo una necessità economica, ma anche il modo per affermare la nostra sovranità strategica e i nostri valori fondamentali.
Guardando avanti
Per superare le sue debolezze e tenere il passo con il progresso a livello mondiale, l’Unione europea dovrà avviare riforme profonde ed effettuare investimenti ingenti nei prossimi anni. Tra le riforme, ho già sottolineato l’importanza di creare una capacità fiscale comune, senza la quale l’attuale governance europea – caratterizzata da una politica monetaria unica e da politiche di bilancio frammentate a livello nazionale – rimane squilibrata. L’idea che la UEM possa funzionare efficacemente senza una capacità fiscale centralizzata è semplicemente un’illusione, e va superata. Una politica fiscale comune correggerebbe questo squilibrio e rafforzerebbe la coesione tra paesi membri, facilitando la realizzazione di investimenti strategici su larga scala.
Tra le altre riforme necessarie per la competitività dell’economia europea mi limito a ricordare l’allargamento del mercato unico ai settori oggi esclusi, come le telecomunicazioni e l’energia, al fine di stimolare concorrenza ed efficienza; la realizzazione di un ambiente normativo favorevole all’attività imprenditoriale, che possa attrarre investimenti privati e incentivare l’innovazione; il potenziamento dei legami tra il mondo accademico e il sistema produttivo, al fine di trasformare i risultati della ricerca in prodotti e servizi competitivi sul mercato globale. Anche sul fronte dei mercati finanziari, nel quale l’integrazione è molto avanzata, da anni mancano progressi significativi verso il completamento dell’Unione bancaria e la realizzazione di un mercato unico dei capitali.
Quanto agli investimenti, i leader europei hanno già individuato i settori chiave su cui concentrare l’impegno: la doppia transizione – ambientale e digitale – e comparti strategici come l’alimentare, l’energia, la sanità e la difesa, nei quali è necessario ridurre la dipendenza dall’estero. Investimenti in questi settori saranno efficaci se realizzati a livello europeo, con fondi sia pubblici sia privati. La spesa richiesta è talmente ingente – dell’ordine di centinaia di miliardi all’anno per molti anni – che è irrealistico pensare che le sole finanze pubbliche o i singoli paesi possano sostenerla da soli. Molte delle attività menzionate hanno la natura di beni pubblici sovranazionali e richiedono pertanto un approccio coordinato a livello europeo. Ciò consentirebbe inoltre di beneficiare di economie di scala e di aumentare l’efficacia degli interventi.
L’essenziale per l’Europa e per l’Italia
Molte delle debolezze strutturali dell’economia europea si ritrovano nell’economia italiana. Nelle Considerazioni finali dello scorso maggio mi sono soffermato sui problemi strutturali che da un quarto di secolo frenano il nostro sviluppo: dalla bassa crescita all’insoddisfacente andamento degli investimenti, dalla stagnazione della produttività fino alla preoccupante prospettiva demografica. In quell’occasione non ho mancato di sottolineare i segnali di vitalità emersi negli anni successivi alla pandemia. Investimenti, occupazione e crescita hanno mostrato una ripresa, e le imprese italiane hanno dimostrato una capacità competitiva sui mercati internazionali che non va sottovalutata.
Questi progressi ci consentono di guardare al futuro con fiducia. Senza indulgere in eccessi di ottimismo, dobbiamo partire da essi per costruire uno sviluppo sostenuto, duraturo e inclusivo. La crescita resta l’obiettivo fondamentale per l’Italia, ma per ottenerla dobbiamo affrontare con decisione i problemi strutturali irrisolti. Dobbiamo concentrarci sulle finalità essenziali: rafforzare la concorrenza, potenziare il capitale umano, accrescere la produttività del lavoro, aumentare l’occupazione di giovani e donne, definire politiche migratorie adeguate.
Il problema cruciale rimane la riduzione del debito pubblico in rapporto al prodotto. Un debito elevato rende più onerosi i finanziamenti alle imprese, frenandone la competitività e l’incentivo a investire; espone l’economia italiana ai movimenti erratici dei mercati finanziari. Sottrae risorse alle politiche anticicliche, agli interventi sociali e alle misure in favore dello sviluppo. L’Italia è l’unico paese dell’area dell’euro in cui la spesa pubblica per interessi sul debito è pressoché equivalente a quella per l’istruzione. Sottolineo questo confronto perché è emblematico di come l’alto debito stia gravando sul futuro delle giovani generazioni, limitando le loro opportunità.
Affrontare il nodo del debito richiede politiche di bilancio orientate alla stabilità e al graduale conseguimento di avanzi primari adeguati. Tuttavia, la riduzione del debito sarà ardua senza un’accelerazione dello sviluppo economico. La strada maestra passa per una gestione prudente dei conti pubblici, affiancata da un deciso incremento della produttività e della crescita. Questo circolo virtuoso aumenterebbe significativamente le probabilità di successo e rafforzerebbe la credibilità delle nostre politiche, alleggerendo il peso della spesa per interessi.
Quali scelte ci consegneranno un domani migliore?
La risposta possiamo trovarla nei valori che hanno ispirato la nascita e l’evoluzione dell’Unione europea. Dopo la devastazione della Seconda Guerra Mondiale, l’essenziale per l’Europa è divenuto finalmente chiaro: costruire una società prospera e soprattutto pacifica. Questo valore fondante deve continuare a orientare le nostre scelte, soprattutto in tempi in cui sono riemersi conflitti e tensioni. Le ricette sono quelle che ci hanno guidato sin qui, basate sul principio della cooperazione e sull’obiettivo di costruire un’economia moderna, capace di affrontare le sfide globali.
Con il fine di conseguire una crescita sostenuta e inclusiva come condizione per il bene comune e la concordia. Il contributo dell’Italia sarà decisivo in questo percorso: affrontare le debolezze strutturali, ridurre il debito pubblico e promuovere una crescita elevata non solo rafforzerà la nostra economia, ma contribuirà anche alla solidità dell’intera Unione europea. Solo così potremo lasciare alle generazioni future un’Italia e un’Europa che abbiano saputo distinguere l’essenziale dal superfluo, orientando le proprie scelte verso ciò che conta davvero.
*l'intervento integrale del Governatore di Bankitalia al Meeting di Rimini