Carige, dimezzare la perdita non basta
Serve la business combination, ma con chi?
Lapresse
Ma il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Dev’essere la domanda che si stanno ponendo a Genova, negli uffici di Carige, dopo aver presentato il bilancio semestrale. Un rendiconto che si chiude con una perdita dimezzata, arrivata a 49,9 milioni. E questa è la buona notizia. La cattiva è che, complice l’impatto devastante del Covid, l’istituto di credito non può garantire un ritorno a un risultato consolidato lordo positivo prima della fine del 2022 e a un utile consolidato prima del 2023. E questa è la notizia più negativa.
Ma il ping pong tra bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto procede. Dopo essere stata riammessa in borsa la scorsa settimana, Carige ha iniziato ad avere un andamento normale e, a oggi, avrebbe una capitalizzazione teorica di circa 840 milioni di euro. Bene. Certo, la giornata di oggi è particolarmente positiva per il mondo bancario, con Bper che ha guadagnato oltre il 10% e con tutta Piazza Affari che è tornata ben oltre i livelli pre-Covid.
Ma se si pensa che l’aumento di capitale necessario per mettere in sicurezza i conti dell’istituto genovese non potrà essere inferiore ai 400 milioni ci si trova nella situazione di dover pensare a reperire metà del proprio market cap. Male. È come se Intesa Sanpaolo dovesse reperire oltre 23 miliardi per un aumento di capitale. Improbabile.
Dunque non rimane che la strada delle cosiddette business combination. O, per meglio dire, dell’M&A. Ma anche in questo caso bisogna andare con i piedi di piombo. La scorsa settimana la Bce ha concluso i suoi consueti stress test e i risultati per Carige non sono stati esattamente brillanti.
In particolare, l’Eurotower ha ammonito che in caso di scenario avverso dell’economia nel 2023, si rischierebbe una perdita di 900 punti base (cioè del 9%) del Cet1. Si tratta dell’indicatore di patrimonializzazione della banca, un parametro fondamentale per comprenderne lo stato di salute.
Dunque, serve una fusione. Ma con chi? Bper si è ufficialmente chiamata fuori. L’amministratore delegato Montani, in call con gli azionisti, ha spiegato che il momento non è propizio per integrare Carige e che attualmente l’istituto dell’Emilia Romagna si sta concentrando sull’integrazione degli sportelli di Ubi.
Secondo Repubblica, all’orizzonte potrebbe invece stagliarsi il Credem, che ha uno dei rapporti più solidi in materia di patrimonializzazione e che ha recentemente acquistato la Cassa di Risparmio di Cento, per iniziare una strategia di irrobustimento dal punto di vista dimensionale.
Alternative al Credem? In effetti, parecchie. La prima e più accreditata è quella del Banco Bpm, che sta cercando di diventare sempre più robusto per non essere inglobato dagli appetiti di Orcel e della sua Unicredit. La quale, una volta completato il dossier Mps potrà sicuramente guardarsi intorno sul mercato e, perché no, vedere che aria tira sotto la Lanterna. Rimane poi il Crédit Agricole che, dopo aver rilevato il Creval, potrebbe averci preso gusto.
Rimangono però due problemi. Il primo è il prezzo: quanto costerebbe comprare Carige? A giugno gli analisti avevano stimato una forchetta tra 1,2 e 1,3 miliardi. Ma è ancora valido questa valutazione alla luce della ripresa delle negoziazioni sul titolo? O varrebbe soltanto l’enterprise value stabilito dal mercato?
Il secondo problema riguarda invece la causa che Vittorio Malacalza, sia come privato cittadino, sia per conto di Malacalza Investimenti, ha intentato alla Bce e a Carige. Nel primo caso si tratta di una richiesta di risarcimento da 875 milioni per condotta pregiudizievole. Nel secondo si parla di 486,6 milioni. A Genova si dicono tranquilli di non poter soccombere in sede giudiziaria e per questo hanno scelto di non procedere con gli accantonamenti. E se si sbagliassero? Lì sì che il bicchiere sarebbe vuoto per davvero.