Da Pirelli a Unicredit: il sogno di Francia e Germania è umiliare l'Italia
Nelle partite industriali Berlino e Parigi hanno sempre voluto banchettare a Roma, ma non hanno mai permesso il contrario
Emanuel Macron - scholz olaf
Germania e Francia vogliono umiliare l'Italia
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È la globalizzazione, bellezza. Ma anche il fatto che ben vengano dall’estero se garantiscono occupazione, valutazioni, utili e via dicendo. Dunque, niente di strano, nulla di sbagliato. Anche perché se i campioni italiani si comportano come la defunta Fiat che dopo essere stata rianimata più volte dai vari Governi ha annunciato un bel giorno che si sarebbe trasferita altrove, tanto vale affidarsi agli stranieri. Dove sta, allora, l’inghippo che porta alla domanda: ma quest’Unione, a che serve? Sta nel fatto che ogni volta che un’azienda italiana prova a fare spese all’estero viene sbeffeggiata, schiaffeggiata, stoppata. È successo molti anni fa quando Pirelli – come ricordava oggi Alberto Forchielli – venne dissuasa dal governo tedesco a papparsi Continental provocando un terremoto che costò decine di miliardi di capitalizzazione e la scissione della Bicocca.
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È successo, in tempi più recenti, con i cantieri Saint Lazare di Stx, con il governo francese che ha sbattuto la porta in faccia a Fincantieri. E succede in qualche modo anche oggi, con Unicredit che chiede di salire al 29,9% di Commerzbank, appena sotto la soglia dell’Opa, e il governo tedesco che prima fa il diavolo a quattro, poi alla fine capitola e ammette che non spetta a lui scegliere quale debba essere l’eventuale compratore dell’istituto di credito teutonico. Grazie al… credito verrebbe da dire, perché in effetti bisogna ricordare a Herr Scholz che esiste una piccola norma che si chiama “libera circolazione dei capitali”. Eppure c’è qualcosa di più profondo che va analizzato debitamente.
Ogni volta che l’Italia si muove cercando di ampliare i propri orizzonti, il (per nulla dinamico) duo Francia-Germania cerca di ributtarla nella sua mediocrità e nel provincialismo che dalla morte di Enrico Mattei in poi ci viene automaticamente assegnato. Qui non si tratta di fare i nazionalisti o gli sciovinisti, quello riesce benissimo a Berlino a Parigi. Ma di far notare sommessamente l’indegna disparità di trattamento che viene declinato a seconda di chi sia il compratore o il comprato. Attenzione, questo non è un invito a un ritorno al protezionismo e all’economia di Stato che tante storture ha prodotto. Ma la richiesta, veemente, di creare un mercato comune europeo, una zona – se non franca – almeno in cui non ci ostacoli tra partner.
L’assurda diatriba sul debito comune, le pernacchie a Mario Draghi e al suo piano da 800 miliardi, una commissione che Ursula Von Der Leyen ha ritagliato intorno al rigore e non intorno alla necessità di crescere per evitare di finire schiacciati nella tenaglia dello scontro globale tra Usa e Cina, sono la dimostrazione di come a Bruxelles non si sia capito granché di come dovrebbe funzionare un continente comune. Che, se preso nella sua interezza, sarebbe superiore a quello della Cina. In un momento di grande entropia, di frammentazione culturale, di escalation di tensioni su nuovi fronti, mentre Pechino e Washington soffiano sui venti di guerra – pur fingendo di assurgere a pacieri del mondo – o l’Europa trova una sua unità, una sua solidarietà per cui accetta debolezze e virtù dei Paesi membro, oppure scomparirà rapidamente. A 83 anni dalla pubblicazione del Manifesto di Ventotene, o ci si unisce, o ci si disgrega una volta per tutte. Con buona pace degli “altri” che banchetteranno sui resti maleodoranti di un Continente incapace di trovare una lingua comune. Uno scempio.