Due aziende occidentali su tre sono rimaste a fare affari in Russia

L'analisi della Kyiv School of Economics: su un campione di 3.700 imprese, ben 2.173 sono rimaste attivamente in Russia. Business as usual...

di Andrea Muratore
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Due aziende europee su tre sono rimaste a fare affari in Russia

Nestlé, Unilever, Philip Morris, la banca austriaca Raiffeisen: c’è un’economia occidentale che non vuole o non può ordinatamente abbandonare la Russia. Anche due anni dopo l’invasione dell’Ucraina. Gli espropri russi di asset, con l’ultimo caso di Ariston e Bosch che ha toccato anche l’Italia, vanno di pari passo con le spinte al disinvestimento che aziende come Enel e Unicredit hanno già assecondato vendendo parte delle proprie proprietà nel Paese di Vladimir Putin.

Le imprese europee che hanno lasciato la Russia sono una piccola minoranza

Ma ad oggi è una minoranza la quota di aziende che è uscita dalla Russia rispetto al febbraio 2022, mese dell’attacco all’Ucraina e del decollo delle sanzioni europee, giunte a dodici pacchetti entrati in vigore, e statunitensi. Su un campione di circa 3.700 imprese analizzato dalla Kyiv School of Economics e dal Financial Times, ben 2.173 sono rimaste attivamente in Russia, a fronte di 387 che hanno lasciato Mosca e 1.223 che hanno ridotto, ma non azzerato, la loro presenza.

Perchè lasciare la Russia non è così semplice

“Le aziende occidentali, tra cui Avon Products, Air Liquide e Reckitt, sono rimaste in Russia nonostante abbiano dichiarato di voler andarsene dopo l’invasione dell’Ucraina, poiché gli ostacoli burocratici aumentano e l’attività dei consumatori è in ripresa”, nota il Ft citando tre casi di società che hanno fatto dietrofront sull’addio alla Russia:: “Il marchio di cosmetici di proprietà di Natura, il produttore francese di gas industriale e il conglomerato britannico che produce di tutto, dagli antidolorifici ai preservativi, sono tra le centinaia di gruppi occidentali rimasti nel paese dall’invasione su vasta scala del 2022”.

In quest’ottica, la Russia ha imposto regole come l’obbligo di ottenere l’autorizzazione dal Cremlino per vender quote di partecipate e il divieto di trasferire all’estero i profitti che in certi settori hanno spinto le aziende a restare. Raiffeisen, la banca austriaca che è tra le prime europee in Russia, è l’esempio classico: da tempo l’istituto ha annunciato un piano di ridimensionamento della sua presenza in loco che però deve esser mediato con la necessità di mantenere attiva e operativa la struttura e di non vendere asset e immobilizzazioni.

Terza guerra mondiale e armi atomiche? La situazione è grave, ma non seria...

Del resto, quella tra Russia e Occidente è da sempre una guerra economica a macchia di leopardo: l’Europa non ha mai messo ufficialmente sotto embargo completo il gas, principale fonte di entrata del Cremlino, la Russia non ha mai stoppato i flussi di gas attraverso l’Ucraina invasa e gli Usa hanno promosso solo dieci giorni fa il bando all’importazione di uranio russo. Si parlava di terza guerra mondiale e intanto Mosca e Washington commerciavano il materiale chiave per l’arma atomica. La situazione è grave, ma non sempre seria. E in quest’ottica, si capisce la scelta di chi rimane nel business as usual in Russia in una situazione di incertezza delle linee politiche e strategiche.