Eni in vendita, il governo mette mano all’argenteria di famiglia
Fughe di notizie, smentite e poi conferme a mezza bocca: il goffo inseguimento ai 20 miliardi delle privatizzazioni
In vendita il 4% di Eni: si salvi chi può
Una voce scuote una giornata già agitata dal commissariamento dell’ex-Ilva: il governo, secondo Bloomberg, sarebbe pronto a mettere in vendita fino al 4% dell’Eni – per un controvalore di un paio di miliardi – non appena sarà completato il programma di riacquisto di azioni proprie (in gergo, buyback) da 2,2 miliardi. L’operazione terminerà ad aprile e quindi da lì si potrebbe scoperchiare il vaso della vendita di una quota in capo al Mef (che detiene il 4,66% del cane a sei zampe) o a Cdp (che ne ha il 27,73%).
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Tutto lecito e nessun timore di intromissioni straniere, svendite di stato e così via. Ma il messaggio che questo governo sta dando ai mercati è quantomeno bizzarro. Da una parte è pronto a riprendersi l’Ilva come non succedeva dai tempi dell’Iri, dall’altra cede una quota di uno dei campioni non soltanto dell’industria italiana, ma anche un player strategico del futuro energetico del nostro Paese. Non per niente, quando Luigi Di Maio viaggiava fuori dai confini lo faceva spesso in compagnia di Claudio Descalzi, vero e proprio ministro degli Esteri in pectore. Prima di lui anche Paolo Scaroni, oggi presidente di Enel, parlava a tu per tu con capi di stato e con grandi magnati.
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Perché questo è il ruolo delle grandi aziende partecipate dallo Stato: essere un traino, un rappresentante del nostro Paese all’estero. Ma se le si vende, se si diluisce il controllo, automaticamente le si depaupera. Non più ambasciatori, ma vere e proprie società per azioni e nulla più. Che devono rendere conto un po’ di più agli azionisti e un po’ meno alla collettività. Claudio Descalzi ha avviato un cambiamento epocale nella politica di approvvigionamento del nostro Paese. E l’ha fatto proprio perché sorretto dal bene comune prima ancora che dal denaro.
Probabilmente avrebbe potuto massimizzare i risultati, accrescere gli utili e le cedole da ripartire agli azionisti (tra cui, con il 32,4% c’è proprio lo Stato). Se parliamo solo dei primi nove mesi dell'anno sono 6,6 miliardi di profitti, con la quota parte per Mef e Cdp di complessivi 2,14 miliardi. Ma ha scelto di non farlo, preferendo una visione di lungo periodo. Eni non è un’azienda come le altre. Così come non lo è Leonardo – che vende armamenti ma al contempo rappresenta la nostra Difesa. Mettere in vendita il 4% del cane a sei zampe, unitamente a una quota di Poste, a una di Ferrovie, ai porti e via dicendo... Non saremo un Paese meno sovrano, saremo un Paese un po’ meno libero di guardare al futuro. Il governo ci ripensi.