Fit For 55, rischia di trasformarsi in un boomerang per le imprese

Emissioni di carbonio, "zero netto" entro il 2050. Bruxelles prevede uno stravolgimento della produzione, per prima quella dell'automotive: che cosa si rischia

L’opinione di Vincenzo Caccioppoli
Economia
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La scorsa settimana la Commissione europea ha in un certo senso compiuto un passo importante verso la necessaria azione che occorre fare per porre un freno al fenomeno del cambio climatico. Il piano presentato, nell’ambito del grande Green Deal di questa nuova commissione, per ridurre le emissioni di carbonio dell'UE del 55 percento rispetto alle emissioni del 1990, entro il 2030 e raggiungere lo "zero netto" entro il 2050 è poderoso, ambizioso ma anche per certi versi discutibile, visto la reazione che esso ha provocato sia da parte del mondo economico ma anche da parte di alcuni Stati europei, Italia e Francia in testa, che hanno già formalmente richiesto una revisione del piano.

Bruxelles prevede un profondo stravolgimento dei metodi produttivi delle grandi imprese, incidendo anche su molti settori della industria pesante, primo fra tutti quello dell’automotive, immaginando l'eliminazione della vendita di nuove automobili a gas e diesel entro il 2035 e introduzione di dazi e tasse per i prodotti che non soddisfano le legge in materia di decarbonizzazione.

Basti pensare a cosa potrebbe significare tutto ciò, nel nostro paese, non tanto per quelle case automobilistiche come Ferrari, Maserati e Lamborghini, che probabilmente troverebbero soluzioni alternative per produrre le loro desideratissime vetture di lusso, ma per tutta quella filiera dell’indotto ad esse collegata, che da questo tipo di approccio potrebbe rischiare di essere pesantemente penalizzata. Ecco allora che se da un lato è sicuramente apprezzabile il tentativo della Commissione di fare qualcosa er limitare i nefasti danni del cambio climatico ( soprattutto all’indomani della terribile inondazione che ha stravolto parte della Germania, del Belgio e dell’Olanda) dall’altro bisogna fare sicuramente i conti con tutte le esternalità che un simile approccio può comportare per alcuni settori produttivi, che significano in soldoni milioni di posti di lavoro in tutto il Continente.

Tutto molto buono e condivisibile quindi sulla carta ma forse molto meno nella pratica. Anche perché, come fa giustamente notare il capo delegazione di Fdi al Parlamento europeo Carlo Fidanza, il tasso di inquinamento dell’Europa a livello globale è pari circa all’8%, mentre la Cina è responsabile per il 27% di gas nocivi nell’atmosfera e gli Stati Uniti per l’11%. Insomma come dire che tanto sforzo solo da una parte, rischia di rivelarsi vano, ed anzi addirittura dannoso dal punto di vista economico per molti settori produttivi europei, se non ci sarà un vero “ravvedimento” globale sul tema ambientale. Qualcuno potrebbe dire forse arguire che questa mossa europea aumenta la pressione diplomatica sugli Stati Uniti, la Cina e altri importanti paesi responsabili delle emissioni, affinché rispondano allo stesso modo in vista della conferenza sul cambiamento climatico di Glasgow.

Soprattutto ora che alla guida degli Stati Uniti c’è Biden che pare sicuramente molto più sensibile del suo predecessore alle tematiche ambientali. Ma siamo sicuri che la Ue possa avere il peso politico e diplomatico per poter influenzare seriamente Stati Uniti e soprattutto Cina, in una materia cosi delicata, soprattutto in un momento storico come quello attuale sconvolto dalla pandemia di Covid 19? L'UE è spesso descritta come un gigante economico ma un pigmeo politico. La sua marginalità al tavolo dei grandi in moltissime questioni di geopolitica è ormai un dato assodato ed indiscutibile. Da troppo tempo alla Unione manca una linea comune e risoluta di politica estera, che quindi si muove a seconda della singole convenienze dei paesi membri ed inevitabilmente il peso politico non può essere pari alle grandi potenze mondiali. Basta citare i casi della Libia o della Siria, per comprendere come l’Europa spesso debba sottostare ai voleri non solo delle due grandi potenze, ma anche a quelli di chi, come Erdogan o Putin, ambiscono ad esserlo.

Ma sull’ambiente l’Europa, che ha già ridotto di circa il 20% negli ultimi venti anni le emissioni inquinanti, senza però purtroppo determinare benefici a livello globale, proprio perché simile sforzo non è stato perseguito da Cina e Stati Uniti, sembra voler perseguire una sua linea politica costi quel costi, lasciando da parte timori e paure reverenziali. Il piano, infatti, rafforzerebbe l'attuale sistema di scambio di emissioni della Ue, che limita e tassa le emissioni di carbonio delle aziende, attualmente a un prezzo di circa $ 60 per tonnellata, estendendolo anche ai settori dell'edilizia e dei trasporti, inclusi l'aviazione e la navigazione.

La proposta più sbalorditiva della Commissione è che "tutte le nuove auto immatricolate a partire dal 2035 saranno a emissioni zero", grazie a una rete continentale di stazioni di ricarica per carburanti elettrici e a idrogeno. Tutto ciò inevitabilmente comporta altissimi costi per industrie ed economie già duramente colpite dalla crisi economica di questi anni. A muovere i piani del Berlaymont è il principio secondo cui “il costo della lotta al cambiamento climatico è alto, ma il costo dell’inazione lo è ancora di più”.

L’importante, però, è fare in modo che a pagarne non sia solo la fascia più vulnerabile della popolazione europea. Per questo la Commissione è fiera di aver proposto un Fondo sociale climatico da distribuire tra gli Stati membri (all’Italia spetterebbero 7,8 miliardi di euro in sette anni, 2025-2032) con cui per la prima volta l’UE spera di affrontare anche il problema della povertà energetica, che affligge non meno di 35 milioni di europei. “Dobbiamo garantire che le famiglie vulnerabili a basso e medio reddito sentano il beneficio della transizione”.

Il rischio poi nell'adottare standard di emissioni elevati, ovviamente, è che spingerebbero semplicemente la produzione ad alta intensità di carbonio verso altri paesi, oltre a esporre i produttori dell'UE a una concorrenza straniera sleale. Per ovviare a questo problema la Commissione europea ha stabilito di introdurre un nuovo meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (Carbon border adjustment mechanism, Cbam), che fisserà un prezzo del carbonio per le importazioni di determinati prodotti per garantire che l’azione ambiziosa per il clima in Europa non porti alla rilocalizzazione delle emissioni di carbonio in altri Paesi più permissivi: da qui al 2025 il Cbam sarà in fase di rodaggio, e inizierà ad applicarsi al commercio di cemento, ferro, acciaio, alluminio, fertilizzanti ed energia elettrica. Ma tutto questo inevitabilmente comporta alti costi alle imprese, che poi inevitabilmente non potranno che scaricarsi sui cittadini, sotto forma per esempio di bollette molto più care o di prodotti più costosi.

La proposta di estendere il mercato del carbonio al riscaldamento e ai combustibili è un particolare punto critico. Come ricordano bene i leader dell'UE, lo sforzo del presidente francese Emmanuel Macron di aumentare le tasse sul carburante nel 2017 come parte dell'agenda nazionale per il clima della Francia ha scatenato le massicce proteste dei Gilet Gialli tra i cittadini meno preoccupati per "la fine del mondo" che per "la fine del mese".

Se i cittadini dell'UE dovessero considerare il Green Deal europeo come un progetto gravoso e guidato dall'élite, potrebbe incontrare la stessa sorte. E da qui proprio Macron e Draghi hanno già richiesto una revisione di profonda di questo ambizioso progetto, che deve coniugare la necessaria tutela dell’ambiente con le necessità di un settore produttivo già duramente colpito e con un aumento considerevole delle persone che non riescono ad arrivare a fine mese.

Per prevenire questa possibilità, la Commissione europea propone, come detto, di stanziare circa 72,2 miliardi di euro, dal bilancio dell'UE tra il 2025-2035 a un nuovo Fondo sociale per il clima. Il fondo dovrebbe come detto aiutare i cittadini vulnerabili dell'UE e le piccole imprese ad assorbire i costi della decarbonizzazione, in particolare le spese relative a "investimenti in efficienza energetica, nuovi sistemi di riscaldamento e raffreddamento e mobilità più pulita".

Ma difficile pensare che questo fondo possa bastare a coprire gli enormi costi che una simile rapida transizione green della produzione comporteranno per le economie dei paesi dell’unione. Frans Timmermans, il vicepresidente della commissione che guida il Green Deal europeo, descrive giustamente gli anni 2020 come un "decennio decisivo nella lotta contro le crisi del clima e della biodiversità", ma questo non vuol dire che l’Europa può fare un simile sforzo da sola e in tepi cosi rapidi.

Il destino del pianeta dipenderà quindi fortemente anche e soprattutto dalla volontà della Cina di accelerare il suo obiettivo per il 2060 per la neutralità del carbonio, nonché dalla capacità dell'amministrazione Biden di mantenere i propri audaci impegni in un ambiente politico interno altamente partigiano. Richiederà inoltre nuovi importanti impegni da parte di India, Giappone, Russia e altri importanti paesi responsabili delle emissioni. Senza questa convergenza di intenti il rischo che si correrebbe sarebbe quello di regalare un enorme vantaggio competitivo alle aziende americane e cinesi, che senza la zavorra dei costi legati alla riduzione delle emissioni inquinanti, potrebbero aumentare i propri profitti a scapito di quelle europee.