Follia Ue: ci chiede di ridurre il debito ma vuole che spendiamo in armi
Tra il 2 e il 3% del Pil dovrà essere valorizzato per rispettare i neo-reintrodotti paramenti debito-Pil o per la quota Nato
Follia Ue: chiede di ridurre il debito ma vuole che alziamo le spese militari
Il “tin bota”, pronunciato in un apprezzabile italiano da Ursula Von Der Leyen, è rincuorante. Ma, come spesso accade, alle parole non fanno seguito i fatti. E l’Italia dovrà spendere un sacco di soldi. Quanti? Tra il 2 e il 3% del Pil dovrà essere valorizzato per rispettare i neo-reintrodotti paramenti debito-Pil o per la quota NATO, a cui si aggiungono le spese militari per l’Ucraina. Con il Pnrr la UE ci dà (debito con interessi, sempre bene ricordare) soldi che possiamo utilizzare, assunto che noi si sappia rispettare le regole. Dall’altro la UE ci prenderà, un dato di fatto, soldi. Facciamo il punto.
Nel 2020, causa pandemia che bloccava l’economia, l’Unione Europea, per voce di Ursula Gertrud von der Leyen, dichiarava sospeso il patto di stabilità che tanti mal di pancia aveva dato agli stati più “birichini”, come noi italiani. Il nuovo ordine europeo era “spendete quanto potete, per mantenere e supportare i vostri cittadini in questo duro momento”. Ogni stato europeo fece il possibile per varare progetti di supporto al singolo cittadino e imprese. Dall’Italia alla Germania i soldi si sprecarono (in alcuni casi letteralmente) per mantenere tranquilli i cittadini, in un momento di comprensibile preoccupazione.
A inizio 2022 Paolo Gentiloni cominciava a menzionare una prossima riattivazione del patto di stabilità. Nel discorso all’Unione, del settembre 2022, Ursula Gertrud von der Leyen chiarì che il patto di stabilità sarebbe tornato presto. In un documento datato aprile 2023 la UE chiarisce che “per ogni stato membro con un deficit oltre il 3% del Pil, o un debito pubblico oltre il 60%, la Commissione definirà dei percorsi tecnici. Questi percorsi mirano ad assicurare che il debito sarà orientate verso un percorso di plausibile riduzione e che il deficit rimarrà o sarà riportato e mantenuto sotto il 3% del Pil nel medio termine”.
Il concetto di medio termine dovrebbe far riflettere. Non esiste un consensus sulla quantità di tempo che questo modo di dire implica: a seconda dell’area dove esso viene applicato si va dai due ai 10 anni. Idealmente 10 anni è un tempo valido per una nazione per ridurre il proprio debito Pil. Diamo un attimo i numeri: il nostro debito pubblico è calato al 144,4%. Portare questa cifra al 60% implica politiche di contenimento della spesa pubblica per famiglie, ospedali, investimenti infrastrutturali, pensioni etc…. entro 10 anni (se diamo per assunto che questo sia il massimo del concetto di “medio termine”) l’Italia dovrebbe più che dimezzare il suo debito, andando a incidere su tutti gli investimenti che il governo compie nei confronti della società civile, economica e industriale.
Per ottenere questi risultati è plausibile che l’Italia debba valutare la messa in vendita di qualche asset immobile o quote in aziende a partecipazione pubblica. Difficile immaginare che in 10 anni, se questo è il massimo termine, il debito possa essere riportato al 60%. Ovviamente il Pnrr è uno strumento ottimo per aumentare la crescita dell’economia. L’Italia ha qualche problema storico nello spendere i soldi che ogni anno vengono erogati dalla UE (Emilia Romagna docet). Pensare che tutti i soldi del Pnrr, di cui una parte a debito da restituire, andranno solo in progetti che avranno una Roi rilevante è poco plausibile, specie se l’Italia manterrà la sua “flessibilità”, nel cambio di governi nei prossimi anni.
Banca centrale europea e tassi
Uno degli elementi che ha fatto sperare, almeno per qualche mese, che la austerity europea fosse cosa del passato è stata la scelta della Banca Centrale Europea (Bce) di divenire compratrice di bond dei singoli stati. Di fatto un’operazione che ha dato respiro a tutti quegli stati, Italia compresa, che avevano un po’ di debito sovrano in vendita. È stata un’operazione di grande respiro internazionale che, almeno per un po’, ha fatto intravedere una visione europea finanziaria volta a incentivare la crescita tramite la condivisione del debito dei singoli stati.
Quell’esperimento è terminato. A marzo Christine Lagarde, presidente della Bce, ha fatto presente che, stante la fine del programma di acquisti di bond europei, la sua banca non avrebbe alzato subito i tassi. Lagarde è stata di parola: i tassi sono stati aumentati, e continuano ad essere aumentati, a partire dal dicembre 2022; in parallelo con le operazioni della Fed americana. Inutile dire che un aumento del costo del denaro ha avuto un effetto a cascata: le banche centrali di ogni stato europeo si sono adeguate andando a stringere i cordoni della borsa alle singole banche retail.
Ricordiamoci che abbiamo appena vissuto un momento di crisi finanziaria industriale, causata dal supporto finanziario bellico all’Ucraina e la guerra economica alla Russia (storico fornitore di materie prime a prezzi economici ai membri UE). Aumentare il costo del denaro sta implicando un raffreddamento del settore immobiliare (mutui e simili) e un rallentamento del settore manufatturiero (già colpito dai prezzi delle materie prime). La Germania in questi giorni registra una recessione e l’Italia, pur con un outlook positivo, ha appena confermato una rallentamento della crescita.
I costi della guerra li pagano i cittadini, sempre
La terza variabile che rischia di incidere negativamente sulla qualità della vita di ogni cittadino è la crisi ucraina: parliamo delle scelte UE di mantenere il leader attuale con armi e finanziamenti (di cui non si riesce a fare una corretta contabilità nemmeno all’ufficio del Pentagono) e investire nelle spese per la difesa Nato. È dai tempi di Obama (vincitore del record per morti collaterali per bombardamento di droni e sostenitore della guerra civile in Siria) che gli Usa lamentano la mancanza di spesa degli alleati europei, in seno alla Nato. Di fatto gli Usa sono sempre più convinti che la Nato europea dovrebbe dotarsi di un budget bastante per avere risorse militari autoctone, a cui gli Usa possono aggiungere la loro proiezione aerea e navale.
Una visione non dissimile a quella che, già negli anni 70, predicava Edward Nicolae Luttwak nel suo libro “La grande strategia dell'impero romano”. Nell’opera Luttwak paragonava, in modo piuttosto scontato, la strategia dell’impero romano e i suoi alleati confinanti con l’impero al rapporto Usa Europa. Oggi gli Usa sono sempre più impegnati nel contenere la minaccia (definita tale dagli strateghi americani) cinese; per conseguenza le risorse per difendere il fronte europeo devono essere originate dagli alleati europei. I numerosi tentativi dell’Unione di creare un proprio esercito europeo, tema inviso dagli Usa, sono sempre falliti dai tempi di De Gaulle (grande oppositore della Nato).
La crisi ucraina ha dato l’opportunità agli Usa di manifestare agli alleati europei la necessità di investire in armamenti e nelle quote Nato, in modo da portare tali investimenti al 2% del proprio Pil. Come italiani siamo chiamati a fare la nostra parte ed aumentare il contributo di spesa nei confronti della NATO ( si parla di circa il 1,4% del Pil): l’ordine mondiale monopolare è in pericolo, rischia di essere spazzato via da un mondo multipolare che l’Occidente, specialmente gli Usa, non possono permettersi di gestire. Alle spese NATO sono da aggiungersi le spese, questa volta comunitarie, che la UE si è impegnata a fare per costruire una scorta di armamenti, in particolari munizioni, utili sia alla difesa nazionale che alla difesa dell’Ucraina.
Di recente la UE, sulla scorta delle dichiarazioni di amicizia dell’Ursula Gertrud von der Leyen, andrà a creare un piano di industria degli armamenti: per le industrie belliche europee sono previsti in arrivo non meno di 500 milioni di euro. Una cifra di tutto rispetto che, probabilmente, sarà aumentata. Date le disponibilità italiane queste cifre dovranno essere generate o tramite debito (che quindi andrà a scontrarsi contro la necessità di ridurre il debito pubblico) oppure tagliando in spese sociali e investimenti nazionali. I burocrati europei ormai parlano di “economia di guerra” per indicare gli sforzi per la produzione di armi e munizioni a favore dell’Ucraina.
C’è da considerare che donare-vendere armamenti moderni pesanti (blindati, carri, unità antiaeree e jet di 4° generazione) a una nazione che non è membro della Nato, della Ue, con una storia di corruzione e brogli elettorali senza pari potrebbe non essere la soluzione migliore sul lungo periodo. Tanto per osservare errori passati si può ricordare dei 8 trilioni di dollari americani finiti nel buco nero della guerra al terrore: ancora oggi non si comprende che fine abbiano fatto circa 3-4 trilioni.
Stante la bontà o meno delle singole iniziative per rimettere gli stati europei sulla buona strada (il patto di stabilità) o la necessità impellente di difesa contro stati aggressivi resta il fatto che i soldi, in Europa, non si producono da zero. Le singole nazioni dovranno spendere per nuovi armi e tagliare le proprie spese pubbliche per rispettare gli standard NATO. I soldi, senza l’opportunità di fare debito, dovranno essere generati da violenti tagli di bilancio che, in casi come l’Italia, implicheranno la brutale rivisitazione di voci di capitolo importanti quali pensioni, stato sociale, incentivi a privati e imprese e, non ultimo, il rischio di un aumento delle tasse. Queste decisioni dovranno essere prese dall’attuale governo, a rischio di rendere meno felici i propri cittadini elettori. Ad ogni modo questi tagli, stante l’attuale situazione, saranno necessari, ce lo chiedono l’Europa e l’Ucraina.