Il Mef punta sulle microcar giapponesi per rilanciare il nostro malandato automotive. Una mossa che in Italia non può funzionare

L'Italia non è il Giappone: le condizioni di mercato sono diverse e sopratutto le microcar già esistono grazie alla Fiat Topolino o alla Citroën Ami

di Rosa Nasti
Economia

Auto, l'Italia insegue il Giappone: ma le condizioni non ci sono

Il settore automobilistico italiano è in stallo, e il governo prova a reinventarsi ispirandosi alle kei car giapponesi. Piccole, economiche, elettriche: sembrano la soluzione ideale per una mobilità sostenibile e tecnologica. Ma possono davvero funzionare in Italia? Spoiler: no. In Giappone, le kei car hanno senso di esistere sin dal dopoguerra. Sono nate per rispondere a esigenze di mobilità urbana con un approccio pratico: veicoli compatti, semplici da produrre e mantenere, supportati da incentivi fiscali mirati e perfettamente integrati in un contesto urbano che ne favorisce l’uso.

Ma l’Italia non è il Giappone. Qui le condizioni di mercato sono diverse e sopratutto qui le microcar già esistono. Il settore è infatti monopolizzato da grandi marchi come Citroën (con l’Ami), Fiat (con la Topolino) e Opel (con la Rocks Electric) e tutte fanno leva su un’infrastruttura industriale e una rete vendita capillare. Ed ecco il primo nodo per il Mef: proporre oggi un modello analogo senza una base industriale solida significa partire già sconfitti.

Il mercato è saturo e competitivo

Parliamo di numeri: Citroën Ami ha venduto 10.000 unità in un anno, Fiat Topolino segue a ruota. Nissan ha già lanciato una nanocar elettrica con batterie removibili in collaborazione con una società spagnola. Altri produttori? Esistono piccole realtà come Tazzari e Microlino (o anche le francesi Aixam e Ligier), ma si tratta di nicchie costose, con prezzi che partono dai 15.000 euro. Inoltre, molte di queste microcar sono ancora termiche, e quindi non  risolvono affatto il problema delle emissioni, restando lontani da una reale transizione green. Insomma, per ora non c’è spazio per nuovi protagonisti senza un vero cambio di passo.  Il vero problema è anche alla radice: l’Italia non ha un’industria delle batterie. La Gigafactory di Termoli è ancora un progetto sulla carta, e senza una filiera locale i costi delle microcar elettriche sarebbero insostenibili, senza contare che importare batterie significa dipendere da mercati esteri, aumentando il prezzo finale e penalizzando la competitività. 

Poi c’è il nodo della sicurezza. In Giappone le kei car sono a quattro posti, quindi, laddove le si volesse rendere conformi agli standard europei, servirebbero interventi costosi sui sistemi di sicurezza, che renderebbero, però, il prodotto inaccessibile per molti consumatori.  Non a caso, le microcar sul mercato, come la Ami o la Topolino, sono classificate come quadricicli: non possono andare in autostrada, ma solo circolare nei centri urbani.

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Alla fine la proposta del Mef sembra più uno slogan che una strategia concreta. Anche Luca De Meo, Ceo di Renault e presidente dell’Acea, aveva sottolineato il fatto che l’Europa dovesse puntare su diversificazione e flessibilità, non riducendo il futuro della mobilità a un singolo modello. Ma purtroppo in Italia, per ora, manca tutto: imprenditori pronti a investire, infrastrutture di produzione, una rete vendita solida e incentivi realmente efficaci.  Se vogliamo davvero uscire dal pantano, serve una strategia che parta dai fatti, non da idee infattibili: puntare sulle microcar senza una rete industriale e commerciale è come costruire un castello di sabbia in mezzo alla tempesta. E l’Italia, di tempeste, ne ha già affrontate troppe.

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