In migliaia licenziati da un algoritmo, l'IA ci ruba il lavoro? Ecco tutta la verità

Paradossalmente, non è l’IA a minacciare i posti di lavoro, ma una cattiva gestione del suo potenziale

di Rosa Nasti
intelligenza artificiale 
Economia

Licenziati da un algoritmo: l'intelligenza artificiale ci ruberà il lavoro?

L'intelligenza artificiale è entrata prepotentemente nel mondo del lavoro, trasformando processi, decisioni e causando anche diversi licenziamenti. Un esempio? Il colosso petrolifero britannico Bp ha recentemente annunciato un taglio di 7.700 posti di lavoro, più del 5% della sua forza lavoro a tempo pieno. La notizia non sorprenderebbe in tempi di ristrutturazioni aziendali, se non fosse che, secondo alcune indiscrezioni, sarebbe stata impiegata l'IA per identificare chi avrebbe dovuto perdere il lavoro. Una realtà che, se confermata, disegna scenari non poco inquietanti: quasi in 8mila mandati a casa per via di un algoritmo.

Ma Bp non è sola. A Genova, la multinazionale della logistica Maersk ha licenziato quattro dipendenti del customer service, sostituendo parte delle loro mansioni con tecnologie di intelligenza artificiale e delocalizzando altre attività nelle Filippine. Una decisione tra l'altro comunicata con modalità alquanto brutali: una lettera di licenziamento durante un semplice meeting sulle “performance”. Ma neanche questo un caso isolato. Klarna, gigante svedese del “buy now, pay later”, ha dichiarato qualche tempo fa che i suoi sistemi di intelligenza artificiale già svolgono il lavoro di 700 dipendenti in carne e ossa.

Insomma, pian piano le paure dei lavoratori si stanno concretizzando sempre più: l’automazione è qui per restare e ridisegnare il panorama del mondo del lavoro. Eppure, è davvero tutto così negativo? Non proprio. Secondo il report "AI Radar" pubblicato da BCG (Boston Consulting Group), l’intelligenza artificiale è tra le tre priorità strategiche per il 75% dei dirigenti globali, mentre in Italia, il 69% delle aziende la considera cruciale, e l’83% prevede di investire fino a 25 milioni di dollari in IA nei prossimi anni. 

Bei dati sì, ma che cosa significano nel concreto? Che nonostante l'entusiasmo, solo il 25% delle aziende riesce a ottenere risultati significativi dalle iniziative basate sull’IA. Non a caso dal report emerge che il 64% dei dirigenti a livello globale (62% di quelli italiani intervistati) si aspetta di mantenere le dimensioni della propria forza lavoro, in un contesto in cui IA ed esseri umani lavorano fianco a fianco, mentre solo il 7% (3% in Italia) si aspetta una riduzione dell’organico a causa dell’automazione.  Christoph Schweizer, Ceo di BCG, sottolinea inoltre che il successo nell’adozione dell’IA dipende soprattutto dalla focalizzazione su progetti strategici e dalla formazione continua dei lavoratori. Paradossalmente, non è l’IA a minacciare i posti di lavoro, ma una cattiva gestione del suo potenziale.

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Insomma pur riconoscendo a questa tecnologia la capacità di poter liberare i lavoratori da compiti noiosi e pericolosi, lasciando spazio ad attività più creative e soddisfacenti, competenze come il problem solving e la capacità di lavorare in squadra diventeranno sempre più importanti nel tempo – e queste sono qualità che l’IA non potrà mai sostituire. D'altra parte, però, le aziende devono fare la loro parte: investire nella formazione per aiutare le persone a collaborare con le macchine, invece di temerle. E no, il futuro del lavoro non è scritto (per ora) dagli algoritmi, ma dalle scelte che facciamo oggi per affrontare questa rivoluzione tecnologica. Alla fine, la vera domanda è: vogliamo che l’IA sia un alleato o un nostro nemico?

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