Intervista a Alberto Gangemi su futuri scenari della transizione organizzativa

Oggi più che mai il lavoro ha bisogno di un senso. La transizione organizzativa è diventata necessaria e urgente, l'intervista ad Alberto Gangemi

Economia

Intervista ad Alberto Gangemi sui futuri scenari della transizione organizzativa

Abbiamo già accumulato un notevole ritardo, è giunto il tempo di sostenere con politiche e impegni il cambiamento all'interno delle organizzazioni. Ce ne parla Alberto Gangemi, partner di Kopernicana, azienda italiana leader nella trasformazione organizzativa, nata nel 2018 con lo scopo di aiutare le aziende che percepiscono il bisogno di cambiamento.

Gangemi, che sta terminando la scrittura di “Organizzazioni Aperte - Pratiche e oggetti per il lavoro che cambia”, in uscita nei primi mesi del 2023 edito da Ayros, affronta con noi i temi centrali del dibattito su questo passaggio sempre più necessario per le aziende.

Nell'ultima campagna elettorale il tema della transizione ecologica è diventato (con molto ritardo rispetto al dibattito pubblico di altri paesi europei) più visibile e sentito. Vedi un'analogia con il tema della transizione organizzativa, cioè dell'urgenza di ripensare il lavoro, il suo significato, la relazione tra azienda e persone. Siamo pronti ad affrontarla?


La transizione dei modelli organizzativi e di relazione tra persona e azienda è solo una parte del tema, ovviamente. Ci sono emergenze da affrontare, illegalità diffuse, disparità strutturali nelle condizioni del lavoro così come di chi fa impresa. E tuttavia, i dati recenti sull'abbandono del lavoro dopo la pandemia ci dicono quanto sia importante per le persone svolgere un lavoro sensato, un lavoro da cui sperare di fuggire alla fine del turno, della settimana o per sempre, è necessario che ci siano ingredienti come la partecipazione alle decisioni strategiche, la responsabilità distribuita, la trasparenza delle informazioni, la collaborazione e la condivisione del sapere, degli obiettivi e delle esperienze, la relazione diretta con utenti, clienti e cittadini, la connessione con il territorio e con il paesaggio. 


Ma le aziende sono in grado di interrogarsi su questi bisogni? E la politica?

La risposta veloce è: alcune imprese stanno cominciando a farlo, perché l'impatto di una mancata trasformazione è sempre più visibile. La politica no. Avremmo bisogno che accanto alle politiche per lo sviluppo, la politica, il sistema delle imprese, le organizzazioni dei lavoratori (e aggiungerei le scuole) comincino davvero a discutere di cosa è diventato il lavoro in questo Paese e chi sono i giovani che entrano nel mondo del lavoro oggi. Anche se da anni esistono imprese e lavoratori che hanno efficacemente e felicemente superato la struttura taylorista del lavoro frammentato, controllato, gerarchico, basato sulla separazione rigida tra chi pensa il lavoro e chi lo esegue, le esperienze concrete e documentate di aziende che hanno abbracciato un modello organizzativo più orizzontale, basato sull’autonomia crescente delle persone rimangono una minoranza.  Anche se già molti, lavoratori, imprenditori, manager, ricercatori concordano sull’inattualità di un’impresa neoliberale che usa un sistema operativo progettato per la società industriale di fine Settecento e comprendono i vantaggi (economici, sociali, ambientali) del suo completo superamento, una vera transizione organizzativa è ancora difficile parlare. 


 

Quali sono i motivi, oltre a oggettive difficoltà, che frenano questa transizione? 

Innanzitutto, cambiare l’organizzazione significa rinunciare (per molti di quelli che dovrebbero promuoverla) a una quota rilevante del proprio potere di decisione, di controllo, di comando, e assumere (per molti che quel potere dovrebbero riceverlo) responsabilità, oneri e rischi crescenti.  In secondo luogo, portare e distribuire autonomia e responsabilità dentro le organizzazioni va nella direzione opposta a quella percorsa negli ultimi trent’anni nella cultura manageriale e politica europee: invece che separare lavoro e vita, impresa e comunità, si tratta di dare centralità al lavoro e all’impresa come luoghi di crescita delle persone e di sviluppo della cittadinanza. Se passo la maggior parte del mio tempo in un’azienda in cui non decido come lavorare e non mi assumo responsabilità rilevanti (perché c’è qualcuno, il mio capo, che lo fa per me), per quale motivo, da cittadino, dovrei avere voglia di impegnarmi, decidere in modo autonomo, assumermi responsabilità? 

 

Tutto questo richiede molto tempo? 

La transizione verso modi di lavorare e di organizzarsi distribuiti e non gerarchici non può essere semplicemente stabilita attraverso un cambio nell’organigramma, di policy o di processo. Come per quella ecologica, la transizione organizzativa dipende da fattori istituzionali (regole, vincoli e norme), infrastrutturali (architettura organizzativa), ma soprattutto individuali (comportamenti e stili di lavoro) e culturali (valori, pratiche, abitudini) e tutto questo non può avvenire dall’oggi al domani. 

Concretamente, quali ragioni motivano questa transizione. Perché le aziende dovrebbero mettersi su questo terreno?
 

Ci sono almeno tre ragioni per cui la transizione organizzativa diventerà sempre più necessaria: 


⦁    Nelle situazioni complesse e incerte i sistemi che distribuiscono la decisione hanno maggiori opportunità di sopravvivere, adattarsi e crescere. 
⦁    Le persone ricercano il significato anche nel loro lavoro, e non solo nel tempo libero; nelle organizzazioni ad alta autonomia le persone partecipano attivamente alla costruzione del senso del loro lavoro: sanno perché fanno quello che fanno e negoziano il modo di farlo sulla base della competenza e della responsabilità che sono disposte ad assumersi e non del posto che occupano nell’organigramma. 
⦁    La disseminazione e la remotizzazione delle attività (almeno per una parte dei lavori) a cui ci ha obbligato il lockdown ha certificato che il controllo del lavoro non aumenta i risultati e non migliora la produttività; milioni di persone abituate a farsi dire cosa fare e come e ad essere controllate a vista hanno continuato a garantire la produzione anche fuori dall’ufficio e dal radar del proprio manager, usando gli strumenti a disposizione per rimodulare le proprie pratiche di lavoro e di comunicazione e sviluppando bisogni organizzativi e individuali inediti, rispetto ai quali difficilmente si tornerà indietro.

 

Qual è il ruolo della politica e del Governo in tutto questo?

Non vedo grandi proposte su questi temi. Dal Governo attendiamo politiche e decisioni: in questi primi mesi non sono arrivate sulla transizione ecologica né su quella organizzativa. I veri assenti sono tuttavia i partiti: da loro ci si aspetterebbero proposte, piattaforme di discussione, la capacità di raccogliere bisogni, interpretarli. Ma nessun partito in Italia frequenta ormai da decenni il mondo del lavoro. La distanza tra vita lavorativa e vita politica è diventata siderale. Cominciare ad ascoltare anche dopo le campagne elettorali sarebbe un segno di maturità e di speranza, prima che anche per questa transizione sia troppo tardi.


 

Tags:
alberto cangemiintervista