Velasca, le scarpe Made in Italy che piacciono anche all'estero

Con quella di Torino aperta nei giorni scorsi le "botteghe" in giro per il mondo sono diventate 16

Jacopo Sebastio ed Enrico Casati, founder di Velasca
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Velasca punta ai 20 milioni di fatturato

Ha appena inaugurato a Torino la seconda bottega dedicata alla collezione donna: ma è solo l’ultimo traguardo di Velasca, brand di scarpe artigianali fondato nel 2013 da due giovani milanesi, Enrico Casati e Jacopo Sebastio. L’obiettivo è ambizioso: vendere scarpe di alta qualità, made in Italy, a prezzi più bassi dei competitor. “Abbiamo chiuso il 2021 a 13 milioni di fatturato - ci spiega Casati - e prevediamo di arrivare tra i 18 e i 20 milioni nel 2022. Ci troviamo in un momento storico particolarmente stimolante perché iniziamo a vedere un ritorno alla normalità, dopo due anni di pandemia”.

Prima dell’avvento della pandemia, Velasca realizzava il 55% del proprio business online e il 45% tramite retail. Una proporzione che si è ulteriormente spostata verso il virtuale (70-30) negli anni precedenti. Ora siamo al 60-40, ma iniziano a intravedersi segnali che vanno in una direzione di sostanziale pareggio. “Abbiamo 16 negozi attivi al momento - aggiunge Casati - 14 per l’uomo e due per la donna. 13 di questi sono in Italia, mentre l’estero garantisce migliori performance online. Al momento il fatturato nostrano rappresenta il 70% del totale, anche se progressivamente sta crescendo quello che viene realizzato fuori dai nostri confini. Abbiamo un grande obiettivo che è quello di arrivare a 100 milioni di fatturato e per raggiungere questo sogno dobbiamo spingere sui mercati esteri che funzionano di più, cioè Francia e Stati Uniti al momento. Attualmente siamo una settantina di persone, ma abbiamo già avviato nuovi piani di assunzione”.

Il momento storico, comunque, rimane complesso. Crisi delle materie prime, rincari da record per l’energia, colli di bottiglia nella logistica. Velasca sembra toccata in maniera marginale da questa nuova complessità, un po’ perché la pianificazione avviene con 6-8 mesi di anticipo e perché ci si appoggia su un distretto - quello calzaturiero delle Marche - che ha un potenziale pressoché infinito. “L’aumento dei prezzi delle materie prime mi sembra che a volte sia comprensibile - spiega Casati - mentre altre volte mi sembra del tutto speculativo. Incrementi del 20-30% su pellami francesi prodotti in Europa non hanno correlazione con la realtà. Diverso invece è il tema logistico, lì sì che ci sono stati grandi difficoltà, che fortunatamente però non ci hanno toccato da vicino perché non abbiamo prodotti che provengono dalla Cina, terra in cui si sono registrati i ritardi più significativi”.

Un altro tema di grande complessità è quello della gestione dei magazzini, proprio per evitare di approvvigionarsi di prodotti che potrebbero non vendere o finire rapidamente fuori dallo stock. Per questo Velasca utilizza modelli di business che considerano la velocità con cui un singolo prodotto viene venduto nel momento in cui viene immesso sul mercato. E poi c’è la possibilità di impiegare algoritmi previsionali che permettano di stabilire come andranno i continuativi. Anche perché realizzare una scarpa ex novo non è un meccanismo semplice o veloce: servono fino a sei settimane e, solo in casi di emergenza, il tempo può scendere fino a 2 settimane. Per proteggere il prodotto, tra l’altro, si è scelto di effettuare svendite speciali solo per il negozio milanese di Via Archimede a Milano, in un’ottica zero sprechi, un paio di volte all’anni. Per il resto si applica il 20% di sconto in specifici momenti dell’anno e solo su determinate collezioni.

La domanda però rimane: come fa Velasca ad avere scarpe artigianali in pelle con un prezzo che parte dai 190-200 euro circa quando i competitor più blasonati vendono prodotti simili con costi tra le due e le tre volte? “Tutto sta nel modello di business - ci spiega Casati - perché abbiamo una filiera più corta e quindi possiamo permetterci un ricarico più basso pur garantendo eccellenze del Made in Italy. Tutto il processo avviene in Italia, non facciamo i ‘furbetti’ delocalizzando parti della catena fuori dai nostri confini”. E per il futuro? “Stiamo ragionando - conclude Casati - sulla possibilità di estendere il business anche oltre le semplici scarpe. Potrebbero esserci belle sorprese nei prossimi mesi: delle calzature conosciamo già tutto, vediamo se avremo voglia di misurarci con nuove sfide”.