Pensioni, più flessibilità in uscita è possibile. Ecco come

Quota 100-102: presto andranno ridefiniti i criteri che regolano l’uscita dal lavoro. I dati suggeriscono che non si verificherà una fuga verso il pensionamento

di Carlo Mazzaferro*
Economia
Condividi su:

Le pensioni nella legge di bilancio

La Commissione finanze ha recentemente ascoltato in audizione Ufficio parlamentare di bilancio, Cnel, Corte dei conti e Banca d’Italia sui contenuti della legge di bilancio per il 2022. Per quanto attiene agli interventi in ambito pensionistico, il giudizio che emerge dalle relazioni, pur non essendo particolarmente benevolo, appare ispirato a un certo attendismo, forse frutto della decisione del governo di non intervenire in maniera organica sul tema al centro del dibattito dopo l’uscita di scena di Quota 100: la flessibilità pensionistica.

I fondamenti della manovra di finanza pubblica per il 2022 nel settore delle pensioni sono: i) il passaggio da Quota 100 a Quota 102; ii) la conferma per il prossimo anno di opzione donna; iii) la conferma e l’ampliamento della platea per l’Ape sociale; iv) il passaggio dell’Inpgi all’interno dell’Inps.

I primi tre provvedimenti aprono, secondo le indicazioni di Banca d’Italia, la possibilità di un’uscita anticipata a 55 mila persone nel 2022. Passare a Quota 102 è un modo per ammorbidire, in maniera non traumatica per la cassa pensionistica, lo scalone che altrimenti si sarebbe creato a partire dal 1° gennaio 2022 con la fine di Quota 100. Come già evidenziato, si tratta di una scelta che ribadisce il solco generazionale che da decenni ormai caratterizza il lungo passaggio dalla regola retributiva a quella contributiva e garantisce a un (forse) ultimo manipolo di lavoratori il permanere di un privilegio difficilmente giustificabile in termini di equità intergenerazionale.

Opzione donna

Opzione donna viene prolungata ancora per un anno. Finora ha assicurato l’uscita anticipata a un numero non trascurabile di lavoratrici, 140 mila secondo i dati forniti nella relazione della Corte dei conti. Al di là di valutazioni legate all’opportunità di garantire alle donne una sorta di compenso per l’extra contributo loro richiesto all’interno della famiglia, la logica della misura sfugge però quando la si voglia considerare in maniera organica in un sistema che da tempo ha affermato il principio della convergenza dell’età di pensionamento delle donne rispetto a quella degli uomini.

(Segue...)


L’Ape sociale, misura fino a oggi poco utilizzata, verrà ampliata nella platea dei futuri percettori. Nella relazione tecnica di accompagnamento alla legge di bilancio, si parla di 21 mila soggetti per il prossimo anno. Per questi sarà possibile anticipare a 63 anni l’uscita dal mercato del lavoro. Fino al raggiungimento dei requisiti ordinari per la pensione, l’importo erogato verrà finanziato con risorse provenienti dal bilancio pubblico e non da quello pensionistico. Interessa persone che hanno svolto lavori usuranti o che si trovano in condizioni di disoccupazione, ma a ben vedere anche questo è un intervento di tipo categoriale che concede una deroga al regime ordinario di pensionamento, questa volta almeno in maniera coerente con un principio condivisibile di solidarietà.

Un discorso a parte merita la questione dell’Inpgi. La deroga e la categorialità dell’intervento sono qui evidenti e rischiano di generare comportamenti imitativi da parte di altri regimi speciali, che ancora sono presenti nel sempre frastagliato panorama pensionistico italiano.

Verso una ridefinizione dei criteri di uscita

Superata l’approvazione della legge di bilancio, l’esecutivo e la sua maggioranza parlamentare saranno chiamati, assieme alle parti sociali, a una ridefinizione più generale dei criteri che consentono l’uscita per pensionamento. Non si potrà che partire dall’assetto che già oggi la regolamenta nel sistema contributivo.

In sintesi, si partirà dall’età legale di pensionamento, attualmente fissata a 67 anni e destinata a crescere con l’eventuale aumento dell’aspettativa di vita dei pensionati futuri. La normativa attuale permette un anticipo di tre anni e quindi una pensione “anticipata” a 64 anni, in presenza di una prestazione maturata di importo pari ad almeno 2,8 volte l’assegno sociale, circa 1.300 euro mensili. Al tempo stesso, nel caso in cui a 67 anni l’importo maturato non sia almeno pari a 1,5 volte l’assegno sociale, ovvero circa 700 euro mensili, il pensionamento slitta in avanti, fino al raggiungimento dell’obiettivo, con un tetto massimo di 71 anni di età. Accanto a questo schema vi sono poi le pensioni anticipate indipendentemente dall’età anagrafica. Vi si potrà accedere con almeno 42 anni e 10 mesi di contribuzione (un anno in meno per le donne) indipendentemente dall’età anagrafica. Anche questa condizione, a partire dal 2026, sarà agganciata all’andamento dell’aspettativa di vita.

È un’impostazione evidentemente molto attenta agli obiettivi di contenimento della spesa pensionistica aggregata e desiderosa di assicurare che il sistema pubblico possa offrire, anche in futuro, trattamenti adeguati e non troppo distanti da quelli realizzati con il sistema retributivo. Il costo (sociale) per raggiungere i due obiettivi è proprio quello di aver sacrificato una reale flessibilità sull’altare del rigore finanziario e di avere in maniera rigida ipotizzato un pensionamento in età molto avanzate per una parte importante della popolazione occupata.

Norvegia e Svezia, che – come l’Italia – hanno adottato il sistema contributivo, hanno scelto età centrali di pensionamento più basse (65 e 64 rispettivamente) e hanno ammesso la possibilità di anticipare o ritardare l’uscita dal mercato del lavoro senza vincoli particolari. Perché non considerare questa opzione anche per il nostro paese?

I dati sul comportamento dei lavoratori italiani nel passato recente ci dicono che l’età di pensionamento è cresciuta e non in maniera trascurabile: il suo valore medio era pari a 58 anni nel 1995 ed è diventato pari a 64 nel 2020. Anche la distribuzione per età testimonia l’intensità che si è realizzata in questi decenni.

In definitiva, la definizione di quale sarà l’età centrale di pensionamento del futuro ci aiuterà a capire quanto ancora pesino le preoccupazioni sul fatto che fughe verso il pensionamento anticipato possano mettere in discussione la dinamica della spesa previdenziale.

Tra le modifiche, potrebbe esserci anche l’eventuale eliminazione o ammorbidimento delle condizioni sull’importo dell’assegno maturato per accedere alla pensione anticipata di tipo contributivo. Il comportamento dei lavoratori italiani, certificato dai dati, invita infatti a un (moderato) ottimismo. Se non si può escludere che, almeno in parte, l’aumento dell’età di pensionamento effettiva sia stato una conseguenza dell’irrigidimento progressivo delle condizioni normative imposte dalle varie riforme degli ultimi decenni, è tuttavia utile ricordare che il sistema contributivo rende più costosa la scelta di anticipare il pensionamento.

Inoltre, la ridotta adesione a Quota 100, rispetto alle previsioni iniziali del governo, conferma che anche pensioni ancora in parte retributive non sempre si trasformano in pensioni anticipate. La possibilità di accedere al pensionamento anticipato accettando il ricalcolo dell’eventuale quota retributiva della pensione aiuterebbe infine il sistema a beneficiare dei vantaggi che il sistema contributivo offre con riferimento alla stabilità dei conti pensionistici.

*Da Lavoce.info