Revolut, l'app vale 33 miliardi come UniCredit, BancoBpm, Bper e Mps
L'applicazione finanziaria con oltre 16 milioni di clienti in tutto il mondo ha annunciato un round di finanziamento da 800 milioni. Investono Softbank e Tiger
Wise, Square, Klarna, Stripe, Wealthsimple, Plaid, Adyen. E ancora Robin Hood, Bitpanda, Checkout, Revolut, N26. Sono solo alcuni dei molteplici attori che popolano la galassia fintech. Se inizialmente il mondo finanziario ha guardato a queste aziende con simpatia, quasi fossero dei fratelli minori, ora qualche preoccupazione iniziano a destarla.
E questo non tanto per modelli di business vincenti (che pure hanno): l’estrema specializzazione, l’abbattimento di alcuni costi “storici” delle banche, la possibilità di garantire un’esperienza all’utente veramente confortevole, tempi più rapidi e minori costi sono tutte frecce positive all’arco delle realtà fintech. Ma c’è di più.
La loro valutazione sta iniziando a crescere in maniera esponenziale e, per certi versi, preoccupante. Stripe – fintech della Silicon Valley specializzata nei sistemi di pagamento - viene valutata 95 miliardi di dollari ed è ormai lanciata verso una Ipo sul modello di Facebook.
La creatura di Marl Zuckerberg venne quotata a New York con advisor Goldman Sachs con un valore di oltre 100 miliardi di dollari, oggi, a distanza di meno di nove anni, vale circa 970 miliardi.
Rimanendo soltanto in Europa, Klarna, fintech svedese specializzata nel sistema “compra oggi paga in seguito” viene valutata oltre 45 miliardi di euro e i suoi fondatori sono appena entrati nel novero dei miliardari europei.
L'amministratore delegato di UniCredit Andrea Orcel
Revolut, fintech britannica che offre servizi bancari, ha ricevuto un round di finanziamento da 800 milioni e ha visto balzare la sua valutazione a 33 miliardi. A guidare questo nuovo giro di valzer due giganti come la giapponese SoftBank e il fondo Tiger Global.
Perché queste valutazioni? Perché i nomi fatti all’inizio di questo articolo hanno valutazioni comprese tra i 5 e i 100 miliardi di dollari? Le risposte sono tantissime.
Prima di tutto, perché in questo momento gli investitori riconoscono che il fintech ha un ampio margine di crescita. Perché offre servizi alternativi, più profilati, più verticali. Insomma, si preoccupa di dare al cliente un servizio migliore. E lo può fare proprio perché non è un grande scaffale da cui pescare, ma una piccola boutique che vende pochi prodotti ma di pregio.
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Il secondo motivo per cui le valutazioni stanno schizzando è rappresentato dal fatto che la banca tradizionale, in questo momento, fa fatica a marginalizzare sui prodotti un tempo più fruttuosi. L’unica categoria che continua a crescere è quella delle fabbriche prodotto, dell’asset management e via dicendo. Non è un caso che la prima mossa di Andrea Orcel in UniCredit sia stata proprio quella di puntare su una riorganizzazione dell’offerta di Piazza Gae Aulenti.
L'amministratore delegato di Banco Bpm Giuseppe Castagna
Piccola nota di colore: proprio UniCredit mentre scriviamo ha una valutazione di mercato intorno ai 21 miliardi di euro, Banco Bpm inferiore ai 4, Bper di 2,4, Mps di 1,1. Se si esclude Intesa Sanpaolo, che di miliardi ne vale 42 (comunque meno di Klarna) i quattro istituti di credito italiani che occupano le posizioni dalla 2 alla 5 per complessivi 6.845 sportelli non valgono quanto Revolut.
Il terzo, grande problema che attanaglia le banche tradizionali è che con il costo del denaro così basso, con i tassi inchiodati a un misero decimale, diventa difficile remunerare gli asset attraverso i mutui e gli altri prodotti tradizionali. Anzi, buona parte delle attività avvengono a sconto rispetto al patrimonio che detengono o agli impieghi che hanno in essere.
(Segue: i grandi problemi delle banche tradizionali)
Quarto motivo: se anche gli Npe non saranno quella montagna che tutti si attendevano fino a qualche settimana fa, la fine delle procedure di tutela da parte dei governi (ultimo quello italiano) ha riacceso la preoccupazione per possibili incagli. Le banche hanno riserve di capitale sufficienti a far fronte a un’ondata di crediti non performanti. Ma ovviamente al mercato potrebbe non piacere.
L'amministratore delegato di Bper Piero Montani
Quinto e ultimo motivo: il sistema del fintech è a rischio bolla. Inutile girarci attorno, certe valutazioni sono irreali già sui prodotti fisici (citofonare Tesla), figuriamoci su servizi finanziari così parcellizzati. E allora? Si rischia di andare incontro a grandi passi verso un nuovo crash delle “dot com” come avvenne alla fine degli anni ‘90.
Allora i titoli delle aziende tech venivano venduti come se fossero anche nel caso in cui (come fu costretto ad ammettere un dirigente di una banca d’investimento davanti alla commissione d’inchiesta) fossero state “cacca”.
L'amministratore delegato di Mps Guido Bastianianini
Oggi ci troviamo alla vigilia di un possibile showdown. Alcune fintech, le più avveniristiche, quelle che offrono servizi significativamente diversi dal passato, continueranno a crescere e diventeranno i nuovi Amazon, Facebook o Google. Ma molti altri rischiano di fare la fine di Lycos, valutata 12,5 miliardi di dollari nel 200 e rivenduta in Corea nel 2004 per 95,4 milioni.
Anche allora, come oggi, i tassi bassi avevano spinto gli investitori a cercare nuove fonti di reddito, aumentando il rischio e scatenando una corsa al rialzo che si è poi tradotta in un vero e proprio disastro per molti (ma non per tutti). Sarà così anche questa volta? I segnali ci sono tutti.