Subappalti e caporalato, una piaga per le imprese: ecco la soluzione

Gli scandali che hanno colpito Esselunga e Armani non sono isolati. Come le imprese possono salvare la reputazione? Intervista

di Eleonora Perego
Economia

Subappalti e caporalato, da Esselunga a Armani: ecco come le imprese possono salvarsi 

Lo scandalo che ha colpito nei giorni scorsi la Giorgio Armani Operations spa non è isolato. È solo la punta di un iceberg che galleggia nel mare delle realtà imprenditoriali, e che prende il nome di subappalto. Un istituto, questo, spesso associato al reato di caporalato, in parole povere allo sfruttamento del lavoro. A torto o a ragione, episodi come il recente disastro nel cantiere Esselunga di Firenze, nel quale hanno perso la vita cinque operai, o come il sistema marcio di subfornitura nella produzione di accessori di Armani, creano un danno reputazionale di non poco conto per le imprese committenti. Il dito dei mercati, degli investitori ma soprattutto del sentire comune è puntato contro i colossi della logistica, del lusso, e non solo.

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Affaritaliani.it ha interpellato Armando Simbari, avvocato penalista di Milano specializzato proprio in reati che spaziano dal caporalato ai crimini responsabili di danni reputazionali, per analizzare il punto di vista delle imprese, e quali possono essere le soluzioni per porre fine a un fenomeno dal grande impatto sociale.

Il codice degli appalti del 2023 ha tolto ogni limite al subappalto a catena. Un passo indietro per la libera concorrenza?

Direi di no: concettualmente l’appalto ma anche il subappalto sono istituti che anzi vanno incontro all’economia. Entrambi si pongono nell’ottica di efficientare, razionalizzare il sistema imprenditoriale ed economico, dando possibilità alle singole competenze di essere valorizzate. Eliminare il subappalto, dichiararlo ontologicamente illecito, mi sembrerebbe piuttosto improprio, perchè rientra nella logica della distribuzione delle attività nell’ambito delle grandi aziende. È chiaro, infatti, che quando si appalta una certa attività questa si articola in una serie di competenze e di processi che il fornitore potrebbe non essere in grado di affrontare da solo. 

Gli ultimi scandali, però (vedi Armani, Esselunga), non hanno restituito proprio una bella immagine del subappalto, che si associa spesso al caporalato

È sicuramente vero che, al netto dei casi specifici, sta venendo fuori un grande tema sociale. Ma se si impone alle imprese un meccanismo virtuoso di governance, il primo aspetto deve essere e sarà anche la sostenibilità a livello economico dei fornitori.

Si spieghi meglio

Nessuna committente, nessuna realtà aziendale che voglia stare nel mercato oggi accetterebbe il rischio di un impatto reputazionale così rilevante come quello che può derivare dalle inchieste giudiziarie di cui si legge oggi sui giornali.

Nessuna impresa, oggi, può pensare di sottovalutare determinati rischi per una questione di costi. Il prezzo da pagare, in termini di reputazione, sarebbe troppo elevato. Intendo dire che, per come oggi è il sentiment del mondo delle aziende virtuose, che operano in un certo tipo di mercato tra cui il quello del lusso o della logistica, il tema dominante è proprio come soddisfare le esigenze di compliance portate all’attenzione da queste inchieste giudiziarie.

Se nessun’impresa vorrebbe incorrere in situazioni patologiche, come mai situazioni di questo tipo sono all’ordine del giorno e, anzi, colpiscono proprio le aziende più rinomate?

Le realtà imprenditoriali non rimarranno insensibili a queste vicende giudiziarie, tutt’altro. Il tema però è quali sono le regole di condotta da seguire, fin dove si possono e si devono spingere i controlli, le verifiche nei confronti di altre realtà con le quali non è stato stipulato un contratto. Quello che oggi le aziende denunciano, anche in un’ottica di compliance, è l’assenza di chiarezza sulle best practice da seguire. Mancano linee di condotta certe, principi chiari e condivisi.

Bisogna intendersi su cosa voglia dire fare prevenzione, su quali sono i poteri specifici che un’azienda ha, in definitiva, sulla filiera degli appaltatori e dei subappaltatori.

Ma le imprese hanno i propri ispettori, mi vuole dire che possono “non sapere” cosa accade nelle realtà sotto di loro?

Ricordiamoci che le imprese non sono organi investigativi, ci sono attività che possono fare ma anche attività che non possono fare. Se l’azienda ha un audit interno strutturato ed efficace, che svolge ispezioni... bisogna individuare quelli che possono essere degli indici di allarme seri e sostenibili. Anche in termini di tariffe applicabili per i contratti di fornitura e subfornitura.

E qual è la soluzione?

Posto che la sensibilità dell’autorità giudiziaria e delle imprese è altissima sul tema, e che quello che manca sono principi chiari e condivisi su quali siano i segnali di allarme che l’azienda può e deve percepire, occorre un tavolo di lavoro congiunto che metta le parti (organo inquirente, giudicante, sindacati e rappresentanti delle aziende) insieme per fare chiarezza.

Riprendo quanto detto dal presidente del Tribunale di Milano, Dott. Fabio Roia: occorre mutuare quella che in ambito fiscale si chiama “cooperative compliance”, che le parti si parlino tra di loro, che le procedure, i protocolli, gli standard di controllo siano positivizzati. Altrimenti non c’è certezza del diritto, e questo non aiuta l’economia.

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