Tim, governo (e Labriola) sfogliano la margherita. Kkr interessata alla rete
Il fondo americano sarebbe interessato a un investimento nella rete, ma si aspetta di essere chiamato dal governo. Che però è tiepido
Tim-Kkr, un timidissimo ritorno di fiamma
“Meloni è stata chiarissima nelle repliche alla Camera e al Senato. La rete deve essere controllata dallo Stato”. Così una fonte autorevole vicina all’esecutivo racconta lo stato d’animo del governo riguardo al tema dell’infrastruttura tecnologica su cui deve poggiare la seconda fase della digitalizzazione del Paese. Dopo quella “obbligata” della pandemia, infatti, ora serve un passo avanti, sfruttando anche i fondi del Pnrr. Ma sulla formula da scegliere si sta incartando la partita. Di fatto dunque si sta "stoppando" qualsiasi velleità di ingresso di fondi stranieri nella rete, compreso Kkr che pure nei giorni scorsi era stato dato per interessato all'asset.
Delle varie possibilità si è già detto molto. Esclusa l’opa totalitaria di Cassa Depositi e Prestiti (è stato lo stesso sottosegretario Alessio Butti a “cassare” quest’evenienza), escluso il Piano B di Labriola che prevedeva un beauty contest per una parte della rete (perché si vuole che sia a controllo italiano). Rimane soltanto lo scorporo dei servizi dalla rete e la cessione di quest’ultima a Cdp. Ma a quale prezzo? Via Goito stima, in via ovviamente informale, in 15 miliardi il valore dell’asset. Vivendi almeno 31. Una distanza difficile da colmare.
In tutto questo è tornato nei giorni scorsi sulla scena anche il fondo Kkr. Fonti ufficiali dell’azienda si trincerano dietro il più canonico dei “no comment” ma secondo quanto risulta ad Affaritaliani.it il fondo avrebbe un’idea ben precisa. Partiamo dal principio: la rete interessa, eccome, tant’è che è azionista del 37,5% di FiberCop. Da qui a dire che Kkr vuole comprare la rete il passo è lungo. L’idea sarebbe quella di essere coinvolto dal governo, in partnership, come uno degli interlocutori possibili. Però, riferiscono fonti autorevoli, il rapporto deve essere chiaro: dev'essere l'esecutivo a chiamare il fondo americano e non il contrario.
Il ruolo di Kkr nell'economia italiana (e nella rete)
Ricordiamo che il fondo è già azionista di FiberCop insieme a Tim e Fastweb e che, a novembre dello scorso anno, offrì in modo informale 0,505 euro per azione per la totalità dell’ex-Telecom, per un controvalore di circa 11 miliardi di euro. La proposta non fu mai formalmente respinta dal board, che nel frattempo vide avvicendarsi Pietro Labriola e Luigi Gubitosi come amministratori delegati. Ma venne di fatto messa in un cantuccio e lasciata decadere, tra l’altro senza mai aprire la famosa “data room” che avrebbe permesso di conoscere meglio lo stato dei conti di Tim.
E quindi si torna alla dichiarazione raccolta all’inizio dell’articolo. Il governo, per ora, da quest’orecchio non ci sente e non vuole che in un’infrastruttura così strategica vi siano capitali stranieri, oltretutto speculativi. È la teoria anche del grande ceo del gruppo, Vito Gamberale, che si è detto – nell’ultima puntata di Report – contrarissimo all’ingresso dei fondi. Però bisogna anche affrontare una realtà complicata, con un’azienda, Tim, che è gravata da un debito che non è “colpa” dell’attuale management, ma eredità di un capitalismo predatorio e scellerato che l’ha resa un gigante con i piedi d’argilla invece che il campione tecnologico e d’innovazione che fu fino alla fine degli anni ’90.
Il governo, dunque, si trova a dover risolvere una triplice partita: Open Fiber, di cui la Cassa è azionista al 60%, che deve portare avanti un progetto di cablatura delle aree bianche e che non può essere messa in discussione. Prova ne sia il piano industriale “stand alone” che non prevede sinergie con Tim. Poi c’è, appunto, l’ex-Telecom, che in molti iniziano a temere possa fare la fine di Alitalia. Infine c’è il discorso della rete, infrastruttura strategica ma che non si riesce a capire quanto valga e a quanto debba essere eventualmente venduta.
Tra l’altro, è innegabile che anche nel caso in cui si decidesse di usare Tim come vettore della rete stessa – ma sarebbe un problema, visto che il governo parla di rete “non verticalmente integrata” – i benefici derivanti da questa infrastruttura non sarebbero immediati e non potrebbero essere la panacea di tutti i mali dell’azienda. Si tratta di un processo lungo, da negoziare con l’Europa. Per questo anche il prossimo cda di Tim, che si terrà il 15 dicembre, non sarà decisivo in un senso o in un altro. Al massimo, servirà per trovare il sostituto di Frank Cadoret. E se dovesse essere, come sembra, Massimo Sarmi, si aprirebbe un ulteriore fronte di scontro: davvero uno come lui sarebbe disposto a fare "solo" il consigliere? O piuttosto non ambirà a prendere il posto del presidente Salvatore Rossi?
Infine si torna al tema del prezzo della rete stessa. Senza tornare alla polemica se abbia ragione l’uno o l’altro degli attori in causa, è ovvio che una distanza così notevole rende difficile avviare la trattativa. Ma c’è di più: al momento non esiste alcuna offerta vera messa sul tavolo di Tim. Già quella sarebbe una mossa che potrebbe cambiare di molto lo scenario. Ma al momento siamo ancora alla strategia del surplace, sapendo che il primo che si muove avrà un minimo svantaggio. In genere un governo non può e non deve entrare nelle vicende di un'azienda privata, per di più quotata in borsa. Si tratta quindi di trovare qualcuno, nel mercato, che valuti la rete di Tim, mettendo sul piatto i denari di cui si parla. Finché questo non accadrà saremo ancora in alto mare.