Tim, il problema dei margini nel post-Gubitosi.Non solo Dazn: i nodi irrisolti
Nonostante il cambio di governance, resta problema della marginalità che coinvolge tutti i player del settore
La strategia ideata da Gubitosi non era folle
Non ci voleva un nuovo colpo di scena in Tim. Non era proprio quello di cui un’azienda così strategica per il futuro del nostro Paese aveva bisogno in questo momento. Il fatto che Luigi Gubitosi abbia rassegnato le dimissioni da amministratore delegato e direttore generale – con le deleghe che verranno spalmate tra il nuovo DG Pietro Labriola e il presidente Salvatore Rossi – ma non sia uscito dal consiglio di amministrazione dovrebbe essere un ulteriore campanello d’allarme. A meno di non procedere con una sfiducia del consiglio tutto, Gubitosi potrebbe anche pensare al colpo gobbo di tornare in sella.
Ma l’ennesimo colpo di scena su Tim non appassiona più. Preoccupa. La nuova linea data da Gubitosi, quella cioè di un’azienda tecnologica e non più solo di telecomunicazioni, ha funzionato nella forma ma non nella sostanza. È vero che le varie anime dell’ex-Sip oggi sommate aritmeticamente fanno cubare circa 27 miliardi, ma la capitalizzazione di Tim, dopo una settimana di rally, è ferma a poco più di 10 miliardi. Per intenderci, Moncler ne vale oltre 18, Campari più di 15. E con tutto il rispetto per queste due aziende campioni del Made in Italy, non è pensabile che l’ex-Sip valga così poco.
Ma dove sta la causa di questa valutazione così ridicola? Forse nell’eccessivo debito? In effetti, in poco meno di 30 anni di gestione fallimentare, passando dal “nocciolino duro” alla fusione (con indebitamento) di Tim in Olivetti orchestrata da Gnutti e Colaninno fino al salotto buono con il convitato Telefonica oggi grava sulle spalle dell’azienda un fardello da 22,1 miliardi al 30 settembre, in calo di tre miliardi rispetto allo stesso periodo del 2020. La soluzione dell’enigma ricorda un videogioco di quelli da bar, che avevano livelli difficilissimi da superare e che spesso diventavano gli incubi dei ragazzi che spendevano le loro paghette nel tentativo di superare un mostro pressoché imbattibile.
Per provare a fare un confronto: Orange, il cui presidente e amministratore delegato si è dimesso nei giorni scorsi a causa dell’onda lunga di uno scandalo che coinvolse Bernard Tapie, ha chiuso il 2020 con un debito di 23,49 miliardi a fronte di un fatturato di 42,27 miliardi. Dunque, se Tim fattura 15,8 miliardi la sproporzione appare evidente e il male oscuro sembra facilmente individuato. Ma non è così. Deutsche Telekom, gigante da 101 miliardi di fatturato nel 2020 ha chiuso lo scorso anno con un indebitamento netto di 120,2 miliardi, aumentato del 58,1% rispetto all’anno precedente. E Telefonica, ha 43,1 miliardi di revenues e oltre 50,4 miliardi di debito.
Allora il grande problema di Tim potrebbe essere la variazione di fatturato tra il 2016 e il 2020, con una discesa dell’11,5%? Non necessariamente. Come fa notare oggi L’Economia del Corriere, nello stesso periodo Telefonica è scesa del 10,7%, Orange è crescituta dello 0,1% e Deutsche Telekom dell’1,6%. Lo scorso anno, che doveva essere quello della rinascita per le telco perché tutti erano a casa a lavorare è stato invece un bagno di sangue per tutto il comparto, con l’eccezione di Deutsche Telekom.
Si potrebbe allora pensare che la colpa del nanismo di Tim debba essere attribuita al fatto che in altri Paesi i governi sono presenti direttamente nell’azionariato? A parte che Cdp è il secondo azionista dell’ex-Sip con una quota del 9,8%. Ma poi, gli asset di Tim sono stati ritenuti strategici dal governo che infatti punta a uno scorporo delle attività più strategiche. E che potrebbe comunque decidere di attivare la golden power nel caso di manovre non troppo convincenti.
C’è, semmai, un problema di marginalità che coinvolge tutti i player del settore che hanno visto da una parte l’ingresso di competitor aggressivi dal punto di vista dei prezzi (Iliad su tutti), dall’altra la progressiva riduzione di alcuni asset basilari (chiamate e sms) che sono diventati appannaggio delle aziende come WhatsApp.
La strategia ideata da Gubitosi, dunque, non era folle: rilanciare con servizi accessori e provare a spingere la diffusione della rete e della fibra in particolare in tandem con Dazn. Solo che l’esperimento non ha funzionato, sono arrivati due profit warning e gli abbonamenti – anche se i numeri non vengono divulgati – non sembrano essere al momento quelli auspicati. Su questa partnership Tim ha investito circa 800 milioni per i prossimi tre anni. E non si può permettere errori.
Dunque, la montagna è molto impervia anche per la nuova guida della compagnia. L’Italia ha la più alta dotazione di Recovery Plan in Europa, con 40 miliardi che saranno destinati al digitale. Impensabile e imperdonabile se anche stavolta la montagna dovesse partorire un topolino.