UniCredit-Banco BPM: il golden power è “figlio” di Draghi
Meloni ha il diritto e il dovere di vigilare, certo, ma il vero banco di prova sarà evitare che il golden power diventi un freno inutile
Mario Draghi
Il golden power è “figlio” di Draghi
Giorgia Meloni che annuncia di voler vigilare sull’operazione UniCredit-Banco BPM, senza smentire l’impiego del golden power per difendere l’interesse nazionale, è un’immagine che si presta a molte letture. Si tratta di uno strumento pensato per bloccare l’assalto di capitali stranieri, eppure qui il campo di gioco è tutto domestico: UniCredit è italiana, Banco BPM pure.
E allora, quale interesse nazionale? La risposta potrebbe arrivare se all’orizzonte rispuntasse un attore come Crédit Agricole, già ben radicato in Italia e con mire espansionistiche che potrebbero sfruttare un eventuale stallo per inserirsi e provare a prendersi il Banco.
LEGGI ANCHE: Generali, CDP e l’illusione della "sovranità finanziaria"
Ma la vera chiave del paradosso sta altrove. Questo golden power, che Meloni oggi brandisce come strumento di sovranità, è stato introdotto nel 2021 proprio da Mario Draghi, all’epoca premier, con l’obiettivo di proteggere le banche italiane dall’assalto di capitali stranieri.
Draghi, il padre del liberismo italiano, quello che nel 1992 partecipò al celebre incontro sullo Yacht Britannia, dove si pianificò la stagione delle privatizzazioni. Fu lì che si pose fine all’epoca dell’Iri, smantellando la grande industria pubblica italiana. La Sip diventò Telecom, aprendo la strada a una serie di opa folli che ne hanno segnato la storia, fino a renderla fragile e frammentata.
Trent’anni dopo, lo stesso Draghi si è trovato a fare i conti con quel modello, introducendo un golden power pensato per evitare che le nostre banche, vulnerabili a causa della pandemia ma che conservavano in pancia i risparmi degli italiani, fossero preda di capitali stranieri durante la crisi del Covid. Uno strumento nato per proteggere la sovranità economica che, ironia della sorte, oggi potrebbe essere usato contro un consolidamento interno tra due grandi istituti italiani.
Il rischio? Che in nome della difesa dell’interesse nazionale si finisca per bloccare un’operazione come UniCredit-Banco BPM, strategica perché permetterebbe di puntare a quella super banca da 100 miliardi di capitalizzazione che servirebbe per competere sui mercati globali, a maggior ragione con un dualismo Cina-USA che sarà il refrain dei prossimi quattro anni.
Un’operazione che, magari, porterebbe anche Intesa SanPaolo a muoversi, magari nel wealth management più che nel risiko bancario “puro”. Ma usare il golden power sarebbe un rischio, l’ennesimo caso di un’Italia che, nel tentativo di proteggersi, finisce per farsi male da sola.
Meloni ha il diritto e il dovere di vigilare, certo, ma il vero banco di prova sarà evitare che il golden power diventi un freno inutile. Draghi lo aveva immaginato come scudo contro i barbari alle porte, non come un’arma rivolta verso l’interno. E oggi spetta al governo decidere come usarlo. Bloccare un’operazione tutta italiana rischia di essere un segnale di debolezza, non di forza.
Forse la lezione del Britannia è ancora lì, scolpita nel tempo: l’Italia ha sempre saputo svendere, ma quando si tratta di proteggere davvero le sue risorse strategiche, si perde tra le sue contraddizioni. Speriamo che questa volta la storia non si ripeta.