"Venture Capital? Italia ultima in UE ma il futuro è promettente. Sul settore pesano scarsa conoscenza e visione politica"
L’Italia al decimo posto in Europa per investimenti: il report di P101 e l'intervista al fondatore Andrea Di Camillo
Venture Capital in Italia ancora troppo lontano dai big europei. L'intervista al fondatore e managing partner di P101
Negli ultimi cinque anni, il Venture Capital ha investito quasi 7 miliardi di euro nelle startup italiane, un dato che suona incoraggiante ma che ci relega, però, solo al decimo posto in Europa. L’Italia supera di poco il Belgio, ma resta un fanalino di coda rispetto a Spagna (13,1 miliardi), Germania (48,8 miliardi) e Francia (50,6 miliardi). A confermarlo è la ricerca "State of Italian VC" di P101, uno dei principali player del Venture Capital italiano, nato nel 2013 con un focus su digital e tech.
Il problema? Un ecosistema ancora acerbo. Ma c’è anche un altro lato della medaglia: fino a pochi anni fa, il Venture Capital in Italia era quasi inesistente. Oggi gli investimenti sono raddoppiati, il settore cresce, l’interesse aumenta. Insomma, siamo ancora indietro, ma non più fermi al palo. Lo sottolinea anche Andrea Di Camillo, fondatore e managing partner di P101, in un’intervista ad AffariItaliani.it.
Dal 2011 a oggi, il venture capital italiano è cresciuto esponenzialmente, ma resta indietro rispetto agli altri Paesi europei. Qual è il vero freno?
C’è un problema culturale e di conoscenza, oltre a una carenza di strumenti e incentivi. Solo di recente se ne è iniziato a parlare, ma per troppi decenni il tema è rimasto ai margini del dibattito. Anche a livello politico, l’attenzione è stata inferiore rispetto ad altri Paesi. La Francia, per esempio, quindici anni fa era al nostro livello, ma oggi ha un mercato dieci volte più grande. Questo perché ha adottato misure mirate che hanno incentivato gli investitori a portare risorse sul mercato.
E perché la politica italiana ha mostrato meno interesse?
Perché il problema culturale riguarda tutti, politica inclusa. L’agenda di governo è ampia e il venture capital non è mai stato una priorità. Dipende anche dalla sensibilità di chi è al potere: chi si concentra su politica internazionale, economia o infrastrutture tende, magari, a considerare il venture capital un tema secondario.
Nel 2011 e 2012 ho fatto parte della task force del Ministero dello Sviluppo Economico, collaborando con il ministro Corrado Passera al progetto “Restart Italia”. È stata l’unica iniziativa governativa ufficiale degli ultimi anni. Non è una questione di schieramento politico: semplicemente, il tema non è mai entrato davvero nell’agenda pubblica. Qualcosa è stato fatto, come la norma di dicembre per incentivare i fondi pensione, ma si tratta di misure isolate. Singoli interventi possono aiutare, ma non risolvono il gap strutturale e culturale che ancora ci separa dagli altri Paesi europei.
Quali sono i punti di debolezza del Venture Capital italiano?
Il mercato del venture capital in Italia esiste ed è cresciuto: ci sono operatori, fondi, società e anche storie di successo. Tuttavia, resta un settore con un potenziale ancora inespresso. Se confrontiamo gli investimenti pro capite nel venture capital, l’Italia è all’ultimo posto in qualsiasi categoria possibile. Questo indica, però, che, pur con risorse limitate, si sono già ottenuti alcuni risultati. Guardando alla media dei Paesi del G20, senza porsi obiettivi irraggiungibili, è evidente che possiamo fare molto di più. La buona notizia è che le prospettive di crescita del mercato sono enormi.
Nel 2024 il FinTech e l’E-Commerce hanno perso appeal rispetto a DeepTech e CleanTech. È un cambio di paradigma o solo una moda?
L’e-commerce segue un trend globale. Quando abbiamo iniziato nel 2012, il settore era fortemente sottosviluppato e bastava poco per ottenere risultati. Oggi, invece, il mercato è iper-competitivo e dominato da grandi piattaforme come Amazon, rendendo più difficile emergere. Lo stesso vale per il FinTech, che è soggetto a una complessità regolatoria elevata e variabile da Paese a Paese.
Se vuoi avviare una startup FinTech internazionale, devi prima confrontarti con le normative italiane di Consob e Banca d’Italia, poi quelle francesi, e così via. Questo aggiunge barriere che rendono il settore meno attraente rispetto al passato. Non significa che non ci siano opportunità, ma il ritmo di crescita è rallentato rispetto ad altri comparti emergenti come il DeepTech e il CleanTech.
L’intelligenza artificiale è il settore più finanziato in Francia e Germania, mentre in Italia arranca. È solo un ritardo o un’incapacità di costruire campioni nazionali?
In realtà, più che un problema esclusivamente italiano, è un tema di capitali a livello europeo. Non è che in Europa ci siano grandi campioni dell'IA, fatta eccezione magari per Mistral, che sta cercando di competere con i colossi globali. L’Italia, però, è ancora più indietro perché manca un ecosistema strutturato e finanziamenti adeguati.
Cosa può convincere un capitale internazionale a investire in Italia?
Un investitore internazionale guarda ai ritorni economici. Per attrarlo, devi dimostrargli che in Italia può guadagnare. Gli incentivi fiscali possono aiutare, ma non bastano. Un punto critico è il mancato coinvolgimento delle grandi corporate globali nel venture capital italiano: investono ovunque, perché non qui? Questo è il nodo da sciogliere. Il problema dell’Italia è che il suo talento imprenditoriale è sottovalutato perché circolano pochi capitali. Meno soldi, meno valore, meno visibilità.
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Quali settori saranno i più redditizi per le startup italiane e quali sono sopravvalutati?
L’IA oggi è l’argomento di punta: offre opportunità straordinarie, ma attira anche molta fuffa. Come in ogni boom tecnologico, arrivano sia idee rivoluzionarie sia speculazioni. Negli anni '90 c'erano dieci motori di ricerca e, alla fine, nove hanno fallito. Ora, l'IA sta vivendo un fenomeno simile, con la parola chiave "intelligenza artificiale" che fa da catalizzatore, ma non tutte le iniziative avranno successo.
Se dovesse lanciare oggi una startup, su quale settore punterebbe?
Dipende dal capitale a disposizione. Se avessi fondi pazienti e abbondanti, sicuramente investirei nell'IA o nelle infrastrutture legate a questa tecnologia, oppure in applicazioni IA che, a medio-lungo termine, diventeranno fondamentali come Internet lo è stato negli anni '90. In quel periodo, Internet ha suscitato grande entusiasmo, ma le infrastrutture non erano all'altezza, e ci volevano minuti per caricare una pagina web. Chi ha resistito è stato Google. Oggi, l'IA è la nuova Internet, ma a lungo termine, diventerà uno strumento abilitante per molte cose che oggi non possiamo nemmeno immaginare. Se avessi soldi e tempo, sarebbe l'ambito in cui investirei.
Se invece avessi meno risorse o meno tempo, punterei su qualcosa di più legato al contesto locale. Il turismo, ad esempio, è un settore chiave per l’Italia e per l'Europa: ha un’offerta unica e una domanda costante. Incrociare tecnologia e turismo potrebbe generare opportunità enormi.
Ha mai detto "no" a una startup che poi ha avuto successo?
Certo, in questo campo c'è una componente aleatoria, dove la fortuna gioca un ruolo chiave. Alcuni successi sono stati influenzati da fattori casuali, ma c'è anche una componente di scelte ponderate. La realtà è che vediamo migliaia di aziende all'anno, e investiamo in davvero poche di esse, quindi è altamente probabile che qualcuno di questi "no" si riveli un errore.
Gli errori più comuni che le startup fanno quando cercano investitori?
Il primo è credere che il valore creato sia completamente scollegato dalle dinamiche aziendali tradizionali. Le startup sono aziende, semplicemente in una fase iniziale della loro vita. Essere un'azienda significa essere un agente economico sostenibile. Troppe volte si vedono startup focalizzarsi solo sul prodotto, sulla tecnologia o sull'innovazione, dimenticandosi di costruire una base solida di sostenibilità economica.
Certo, non ci si aspetta che una startup sia subito sostenibile, ma vediamo troppi business plan che affermano che "non saranno mai sostenibili". Se il tuo piano non prevede una via per generare denaro e utili alla fine del ciclo, perché un investitore dovrebbe entrare? Questo è un errore che si ripete più di quanto si pensi. Poi c'è l'altro errore, piani irrealistici con previsioni di crescita eccessive. Se hai fatturato 100.000 euro per dieci anni, non è credibile che dall’anno prossimo arrivi a 100 milioni. Questi numeri sono un salto nel vuoto senza fondamento. E gli investitori lo capiscono subito.