Cisgiordania massacrata dalle bombe di Israele, ma Netanyahu si immola in ambigui messaggi di speranza
Dietro la retorica della “pace” si cela un progetto coloniale che ridefinisce la mappa geopolitica della regione in favore di Israele, mentre i palestinesi sono ridotti a spettatori, oppressi e impotenti
Cisgiordania massacrata dalle bombe di Israele, ecco che cosa si cela davvero dietro la retorica di pace di Tel Aviv
Non si arresta la pesante offensiva “Muro di ferro” lanciata dall'esercito israeliano il 21 gennaio scorso, subito dopo aver firmato il cessate il fuoco con Hamas a Gaza, come parte della sua strategia di repressione contro i gruppi armati palestinesi nella Cisgiordania occupata. Questa violenza senza sosta ieri si è manifestata in un'esplosione di ferocia che ha distrutto 23 edifici a Jenin, lasciando una scia di devastazione visibile nei video che circolano sui social: alte colonne di fumo, seguite da una pioggia di detriti, che si innalzano verso il cielo, segno tangibile della brutalità dell'operazione.
L’attacco, concomitante a operazioni "antiterrorismo" estese ad altri villaggi vicini, fra i quali Tubas, Tammun e Qabatiya, dove sono stati uccisi Saleh Zakarneh e Abed al-Hadi Kamil, entrambi rilasciati come parte dell'accordo di cessate il fuoco del novembre 2023, dopo essere stati detenuti per presunti coinvolgimenti in attività terroristiche, è arrivato a poche ore di distanza dall’uccisione a Jenin di un uomo anziano di 73 anni, Walid Lahloukh, e da quella di un giovane di 22, Mohammed Amjad Hadoush, avvenuta ad Arroub, tra Betlemme ed Hebron. La Mezzaluna Rossa e il Ministero della Salute palestinese hanno confermato le morti. Nonostante le esplosioni abbiano danneggiato anche l'ospedale governativo di Jenin, fortunatamente non sono state segnalate vittime fra il personale medico e i pazienti.
L’impatto dell’offensiva è devastante: dal 21 gennaio sono stati circa 15.000 i palestinesi costretti a sfollare. La situazione è resa ancor più insostenibile dalla carenza di infrastrutture vitali come acqua e corrente elettrica. Ahmed Tobasi, residente di Jenin, ha descritto le abitazioni ormai "impossibili da vivere" a causa delle distruzioni. Un altro abitante, che porta sulle spalle decenni di occupazione, ha commentato con amarezza: "L'esercito israeliano non ha bisogno di scuse per distruggere i nostri edifici e mandarci via. Questo è un piano antico, un piano per cancellare il caso palestinese".
Henna al-Haj Hassan, anche lei residente a Jenin, intervistata da Al Jazeera, ha raccontato la paura e la desolazione: "I suoni erano terribili", ha detto, descrivendo gli attacchi incessanti e il coprifuoco che ha paralizzato la città, con negozi e attività commerciali chiusi. Secondo Al Jazeera Arabic, un intero isolato residenziale del quartiere ad-Damj del campo profughi a Jenin è stato annientato, testimoniando la violenza cieca e indiscriminata dell'operazione.
Un portavoce dell'esercito israeliano, confermando l’azione, ha giustificato l’attacco dichiarando che gli edifici “ospitavano infrastrutture terroristiche". La retorica israeliana si fa ancora più pungente, con volantini distribuiti nelle aree colpite, che dichiarano che l'operazione mira a "sradicare i criminali armati, i lacchè dell'Iran". Un’accusa che non fa che rivelare il grado di militarizzazione della retorica israeliana, tesa a delegittimare ogni forma di resistenza palestinese.
Nel frattempo, l’epicentro della violenza non si limita agli attacchi a Jenin e dintorni. I coloni israeliani hanno assaltato un cimitero nella città di Silwan, a sud di Gerusalemme Est, sotto la protezione dell'esercito israeliano, come già avvenuto in altre occasioni, segno di una complicità istituzionalizzata. Fonti locali hanno raccontato che i coloni hanno abbattuto la recinzione del cimitero, preso il controllo della zona e danneggiato tombe e monumenti. Nella stessa giornata, un incendio è stato appiccato sempre dai coloni a una moschea nel villaggio beduino di Arab al-Mleihat, a nord-ovest di Gerico, simbolo di un odio che sembra non trovare freni.
Anche a Gerusalemme Est la violenza è quotidiana: ogni giorno schiere di bulldozer distruggono case lasciando in mezzo alla strada intere famiglie. Tutto in palese violazione del diritto internazionale, nonostante le decine di risoluzioni vincolanti delle Nazioni Unite che condannano l’occupazione. L’ultima del 18 settembre 2024, la prima formalmente presentata dall’Autorità nazionale palestinese, che intima a Israele di porre fine “alla sua presenza illegale nei Territori palestinesi occupati” entro 12 mesi.
Il Ministero della Salute palestinese ha denunciato che, dal 7 ottobre 2023, sono 882 i palestinesi uccisi, la maggior parte dei quali civili. Tra le ultime vittime anche una bambina di soli due anni, Laila Muhammad Ayman al-Khatib, alla quale hanno sparato alla testa mentre cenava a casa con tutta la sua famiglia. Secondo la versione fornita dall’IDF, i soldati avevano circondato l’edificio e aperto il fuoco perché secondo informazioni avute dai servizi segreti, lì era nascosto un terrorista. Fra un nonno, due figlie vedove e una schiera di nipotini.
Quello in corso non è un episodio isolato, ma s’inserisce in una lunga serie di operazioni che hanno cercato di svuotare la regione delle sue radici palestinesi. Dalla Nakba del 1948, che ha coinvolto il territorio ora sotto Israele, passando per l'occupazione militare del 1967 e l’annessione della Cisgiordania, fino agli accordi di Oslo che, invece di portare pace, hanno creato le condizioni per una continua espansione degli insediamenti e la frammentazione territoriale che oggi stiamo osservando. Una strategia sistematica di annessione e eliminazione, che ha trovato la sua massima espressione nella complicità tacita dell’Occidente, che continua a ignorare la violenza strutturale perpetrata dai coloni, i quali operano impunemente con il sostegno esplicito e implicito delle autorità israeliane.
Eppure, in mezzo a questa realtà devastante, Netanyahu continua a trasmettere ambigui "messaggi di speranza", ignorando il disastro che la sua stessa politica alimenta. Poco prima di volare alla volta di Washington, dove martedì incontrerà il presidente Trump, ha dichiarato: "Credo che possiamo rafforzare la sicurezza in Medio Oriente, ampliare il cerchio di intesa tra Israele e i paesi arabi e raggiungere una straordinaria era di pace". E poi ha aggiunto: "Le nostre decisioni e il coraggio dei nostri soldati hanno ridisegnato la mappa in Medio Oriente, ma credo che lavorando a stretto contatto con il presidente Trump, possiamo farlo ancora di più."
Dietro la retorica della "pace" si cela un progetto coloniale che ridefinisce sì la mappa geopolitica della regione, ma in favore di Israele, mentre i palestinesi sono ridotti a spettatori, oppressi e impotenti, di una guerra che non hanno scelto. Con il supporto incondizionato degli Stati Uniti e la benevolenza di Bruxelles, Israele non sta combattendo un nemico, sta perseguendo l’obiettivo di una vita: l’annessione della Cisgiordania e la soppressione del diritto dei palestinesi a uno stato indipendente e sovrano.
Come osserva Amos Harel, analista di Haaretz, la fiducia di Netanyahu nel supporto internazionale, specialmente da parte di Washington, sembra avere il pieno sostegno da parte della leadership israeliana, che continua a perseguire un progetto coloniale senza remore. "Netanyahu e il suo consigliere più stretto, il ministro degli Affari strategici Ron Dermer, credono di poter convincere Trump ad adottare posizioni a loro favorevoli in un incontro che, da molti, è definito il più fatale tra i capi di stato dei due paesi degli ultimi decenni". Un quadro preoccupante, che solleva interrogativi inquietanti sul futuro della Cisgiordania, di Gaza e dell’intero Medio Oriente.