Dal Vietnam all'Afghanistan: perché gli USA da 76 anni perdono tutte le guerre

Dopo la Seconda guerra mondiale il potente esercito americano ha conosciuto solo dolorose sconfitte. Il tracollo afghano è solo l'ultimo capitolo

Di Lorenzo Zacchetti
Le immagini dei successi bellici americani ormai sono tutte in bianco e nero (Lapresse)
Esteri
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Come è possibile che la superpotenza in grado di spaventare il mondo grazie al suo arsenale nucleare continui a registrare esiti fallimentari in tutte le missioni belliche nelle quali decide di impegnarsi?

Il disastroso esito della ventennale missione degli Stati Uniti in Afghanistan forse non dovrebbe sorprendere. Pur essendo l’unica superpotenza rimasta al mondo dopo il declino dell’Unione Sovietica, l’America negli ultimi 76 anni ha infilato una serie di clamorosi fallimenti: la Corea negli anni ’50, il Vietnam tra il 1964 e il 1973, le fallimentari missioni in Yemen, Libia, Uganda e Somalia, il clamoroso flop cubano con la Baia dei Porci nel 1961. Negli anni '80, in piena Guerra Fredda, l'esercito americano non ha avuto difficoltà ad imporsi ne’ a Grenada, ne’ a Panama, ma i rapporti di forza erano talmente impari da rendere scontato l’esito della partita. 

Oggi la lista si allunga con l’Afghanistan, un flop che arriva dopo l’interlocutorio esito delle due missioni in Iraq. Il politologo Dominic Tierney considera la prima Guerra del Golfo come l’ultimo successo bellico statunitense, ma le conseguenze politiche del secondo conflitto oggettivamente sono state altrettanto deludenti: le elezioni del 2018 hanno portato al potere Muqtada al-Sadr, decisamente ostile all’America. 

Al momento, gli Stati Uniti hanno circa 200.000 soldati impegnati in missioni intorno al mondo, ma questo dispiegamento di forze non riesce ad evitare una continua serie di delusioni. Per spiegare il curioso fenomeno, Tierney ha scritto il libro “The Right Way to Lose a War: America in an Age of Unwinnable Conflicts” (il modo giusto per perdere una guerra: l’America in un’epoca di confitti insolubili).

“Gli Stati Uniti sono molto efficaci nel vincere le guerre tra Stati e per questo motivo hanno vinto la Guerra del Golfo nel 1991. Oggi, però, il 90% dei conflitti sono guerre civili, con atti di guerriglia, terrorismo e insurrezioni all’interno della stessa nazione. Gli USA stanno avendo problemi perché non capiscono bene le politiche locali e le dinamiche. L’Afghanistan è un esempio molto chiaro, essendo una guerra nella quale gli USA sono entrati in modo improvviso, dopo gli attacchi del 2011 al World Trade Center, senza sapere praticamente nulla del Paese”, ha spiegato Tierney in un’intervista a El Pais che anticipava di pochi giorni il drammatico epilogo della questione afghana. 

È dello stesso parere il politologo George Friedman, che sul suo Geopolitical Futures ricorda la precedente alleanza tra USA e Afghanistan in chiave anti-sovietica e la drammatica svolta post 11 settembre: “Come in Vietnam, gli USA sono stati risucchiati nel conflitto quasi senza rendersene conto. Bisognava distruggere al-Qaida. Avendola solo ferita, ma non distrutta, l’America si è sentita obbligata a mantenere il suo impegno. Per farlo, bisognava alzare la posta sul piano militare fino a creare un nuovo regime che condividesse i valori della democrazia liberale. In altre parole, un’altra vecchia società doveva passare attraverso una trasformazione, seppure senza toccare i livelli di devastazioni della Seconda guerra mondiale”. 

Il problema sta proprio qui. Come ha giustamente osservato Nadia Urbinati su Domani, la fondamentale differenza tra i fallimenti di oggi e i successi della Grande Guerra sta nel substrato culturale di Paesi che hanno respinto il tentativo americano di omologazione. “A differenza del Giappone, l’Afghanistan non aveva né una società civile consolidata né una cultura religiosa disposta a facilitare un compromesso con il liberalismo e la modernità”, scrive la politologa.

Oggi Joe Biden cerca un po’ goffamente di smentire che la costruzione di uno stato libero fosse il reale scopo della missione afghana, nel chiaro tentativo di togliersi dalle spalle il peso politico di un fallimento maturato nel corso di quattro presidenze americane. Chi era convinto che dopo l’11 settembre lo strapotere americano si sarebbe manifestato con una violenta blitzkrieg nei confronti dei (presunti) spalleggiatori dei terroristi è rimasto decisamente deluso. “Se potessimo tornare al 2001 e dicessimo alla gente che i talebani rimarranno in circolazione per altri due decenni, sarebbero tutti inorriditi”, commenta Tierney. Invece oggi li ritroviamo addirittura alla guida dell’Afghanistan, con la prospettiva di doverci persino dialogare